Regia: Woody
Allen
Interpreti:
Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley.
Trama
Il Professore di
filosofia Abe Lucas si trasferisce nell’università di Newark. Sul
suo conto ci sono un’infinità di dicerie, volte a giustificarne il
carattere schivo e malinconico: stando alla più cruda, il suo
migliore amico sarebbe morto in guerra (decapitato) e questo lo
avrebbe gettato in una profonda depressione. Le sue lezioni
riflettono il suo stato d’animo disincantato e dolente e questo suo
atteggiamento attrae molto Jill, una sua brillante studentessa, tanto
che tra i due, nonostante lei sia sentimentalmente impegnata, nasce
qualcosa di più di un’amicizia. Abe nel frattempo non riesce a
rispondere alle avance esplicite della professoressa Rita Richards,
proprio a causa del suo stato psicologico. Accidentalmente Abe e Jill
assistono ad una conversazione che restituisce di colpo al professore
la voglia di vivere: in una tavola calda una donna si lamenta del
mancato affidamento dei figli in seguito ad un divorzio, recriminando
contro il giudice incaricato del processo, che avrebbe fama di
disonestà e scorrettezza. Così Abe, di punto in bianco, decide di
farlo fuori. Per giustificare quest’atto, estremo e sconvolgente,
Abe ricorre persino alle teorie filosofiche da lui ben conosciute,
ma, ad omicidio compiuto, l’autoassoluzione più convincente gli
viene offerta dallo stato di vitalità che prova al solo pensiero di
commettere il delitto, e questa forse gli appare la giustificazione
più convincente…
Recensione
Si sa, Woody Allen non è
solito cambiare stile e neppure argomenti. Da decenni le sue
pellicole sono incentrate su temi cupi e amari, che riflettono
sull’insensatezza della vita, sulla sua casualità e sulla
solitudine inesorabile a cui la “condizione di esistenti”
conduce. Negli ultimi anni, come è stato spesso scritto e detto, si
è dedicato al tema del delitto senza castigo (Sogni e
delitti, Match point, fino a risalire al più datato
Crimini e misfatti) e in questo caso Allen sente di voler
ripercorrere la stessa strada.
Il film è costruito
intorno alla figura di Abe Lucas, professore di filosofia appena
trasferito; questo personaggio ricorda, per l’instabilità emotiva,
la Cate Blanchett protagonista di Blue Jasmine, tanto da
sembrarne l’alter-ego maschile. Abe è completamente privo di
qualsiasi slancio vitale, costantemente attaccato alla bottiglia
(tanto che questa pare essere inesauribile), sconsolatamente ed
irrimediabilmente solo. Nonostante il successo che ha avuto e che
continua ad avere con le donne, per lui il sesso è ormai solo un
diversivo, un tempo utile a distrarlo dallo sfondo cupo nel quale
qualsiasi gioia non può che annegare, ma divenuto ormai uno sfogo
inadeguato e perciò senza senso. I suoi risultati accademici invece
gli consentono al massimo di poter puntare ad una cattedra (seppur
prestigiosa), con lo scopo di utilizzare lo spazio che si è
ritagliato come teatro per i suoi messaggi nichilistici e disperati.
Incapace di intravedere uno spiraglio di speranza, Abe sembra però
aver diagnosticato perfettamente l’origine dei suoi mali,
sintetizzata nell’esplicita e definitiva affermazione: “C’è
differenza tra la vita vera e un mare di stronzate filosofiche.”
Quindi che fare? Se la
sua brillante mente lo relega in un nulla atono e smorto, forse è
tempo di trovare una soluzione nei fatti. La possibilità di ridare
forma alla sua vita gliela offre il caso (elemento molto usato da
Allen come motore dell’azione nei suoi film): origliando la
conversazione che ha luogo alle sue spalle Abe viene a conoscenza
della disgraziata condizione familiare nella quale versa una madre
sull’orlo della separazione, penalizzata da un giudice di parte e
quindi bisognosa di aiuto. La situazione viene vista,
pretestuosamente, come l’opportunità di controbilanciare i mali
del mondo, ma l’omicidio di un giudice inaffidabile e disonesto
rappresenta in realtà la svolta personale che stava cercando, lo
spunto per poter ricominciare.
Ad omicidio compiuto (non
si tratta di un vero e proprio spoiler: l’omicidio avviene circa a
metà film…) Abe appare rilassato, disteso, rinato. La forma che
l’episodio gli ha conferito e i connotati che ora lo
caratterizzano, non sembrano essere soltanto quelli di un assassino,
bensì quelli di colui che ha toccato con mano cosa sia realmente la
pratica. L’omicidio, per quanto spregevole, possiede infatti una
tangibilità che le parole, che abitualmente scorrono sotto la sua
penna, non possono e non potranno mai avere.
La sua vita non è più
quella di qualche settimana prima, quando giocava alla roulette russa
disinteressato alle conseguenze di un eventuale sparo, ma comincia ad
essere solida e concreta, tanto da ritornare ad avere un significato,
una direzione e un senso: torna infatti ad essere ineluttabilmente e
terribilmente soggetta alle conseguenze. Ora Abe non solo non vuole
più morire, ma addirittura la morte altrui non lo tange affatto: la
sua vita è diventata un definitivo aut-aut: una sorta di o me o
loro!. Questo cambio di forma rappresenta il vero turning point
del film che, dall’essere la rappresentazione frammentaria di una
vita in pezzi, diventa la cronaca di un concreto e irrazionale
delirio.
I brandelli di cui si
compone il personaggio di Abe si radunano attorno ad un omicidio
premeditato, per poi disperdersi a causa delle conseguenze da esso
stesso innescate. L’irrazionalità che lo anima è tanto sottile da
sconfinare nella lucidità più sinistra e istintiva, frutto forse di
una repressione vitale che l’ha fatta divampare come benzina al
calore della prima scintilla di vita che passava di là. In debito di
fatti e di avvenimenti compiuti, Abe si sente di poter recuperare
solo attraverso un gesto eclatante che contrasti o che avvalli le
teorie filosofiche che fino a quel punto occupavano e dominavano le
sue giornate (“Il fare conta!”, esclama infatti soddisfatto).
Il film di sicuro non è
tra i migliori di Woody Allen, nemmeno di quelli dell’ultimo
periodo, manca infatti la fantasia di Midnight in Paris, la
dirompenza schietta, diretta e definitiva di Basta che funzioni
e la raffinata e densa complessità di Blue Jasmine. Rimane
comunque un film piacevole che gravita attorno ad un Phoenix in forma
(non come in The master o in Her, ma pur sempre in
grado di strutturare personaggi credibilissimi) e ad una misurata e
graziosa Emma Stone (anche lei brava anche se distante, per esempio,
dalla sua performance in Birdman).
Woody Allen sembra
affermare ancora una volta che la causa dei nostri mali, talvolta,
siamo noi stessi, evidentemente incapaci di fronteggiare una realtà
tutt’altro che perfetta, e lo fa senza azzardare un giudizio
morale, ma anzi, come in Blue Jasmine, riuscendo a conservare
un sentimento di pena nei confronti delle disgrazie del suo
protagonista, pena che però non diventa mai tenerezza o compassione,
ma distaccato fatalismo. L’ironia tipica di Allen negli ultimi suoi
film risulta meno presente del solito e, invece che esprimersi nella
forma diretta e classica della battuta, è inserita nell’impalcatura
stessa della storia, tanto da diventarne, forse, la vera
protagonista, sotto le spoglie enigmatiche e nascoste di un destino
indifferente e di un fato maligno e beffardo.
Voto 6/7
G.P.
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