Trama
Un aspirante scrittore, Nick Carraway (Tobey Maguire), abbandonata l’idea di scrivere, si trasferisce a New York per cercare fortuna come agente finanziario. Nella grande città è subito accolto dalla cugina Daisy (Carey Mulligan), che vive in una grande casa col marito Tom (Joel Edgerton), un ex atleta, ricco sfondato, che passa le sue giornate annoiato con la bella moglie. Prende una piccola casa a Long Island proprio vicino alla residenza di un certo Gatsby (Leonardo DiCaprio). Il nome di questo ricco uomo si insinua subito nella mente del ragazzo, il quale è sempre più incuriosito a proposito dell’identità di quest’ultimo. Un giorno riceve un invito, per andare a partecipare ad una delle feste che nel fine settimana organizza, dove scopre che lui è l’unico al quale è stato recapitato un invito. A queste feste partecipa tutta la New York che conta, dai politici, agli attori, ai gangster. Una sera, ad una delle sue sfarzose feste, Jay Gatsby si presenta a Nick, che sembra essere molto affascinato dal modo di fare dell’uomo e la sua curiosità a riguardo non è ancora stata tolta, fino a quando un’amica gli rivela di aver capito tutto, poco prima di scomparire a bordo di una decappottabile di lusso…
Recensione
Il film è sostanzialmente un vulcano di luci abbaglianti, colori, suoni e rumori, che non prendono forma, non si compattano, sembrano essere semplici macchie con contorni ben marcati, destinate a non comunicare niente. La festa, raccontata solo con l’aiuto di una buona fotografia e di una sfarzosa scenografia, non può bastare per dire qualcosa.
La prima parte del film è incentrata attorno al mistero su chi sia questo Gatsby, “Esiste...” -addirittura qualcuno si chiede - “...oppure no?”. “E se non esiste, che senso ha tutto questo?”. Gatsby prende le forme e il volto di Di Caprio, che di nuovo si trova a suo agio con una recitazione che oscilla tra il misurato e l’esplosivo, rimanendo sempre attinente al personaggio che si è cucito addosso: insomma, un’altra buonissima performance.
Alcuni buoni momenti, come l’incontro con Daisy, il momento migliore del film, che esprime nel migliore dei modi i tumulti emotivi di due persone innamorate, ma incerte l’uno dell’altra, cogliendo a fondo quanto la titubanza e la paura di non essere ricambiati possa essere terribile come esperienza di vita vissuta, ma comica nella sua spontaneità, se vista dall’esterno. Il film si impenna per un attimo per poi ricadere ad un livello che, un inizio sfavillante nei colori e povero di sostanza, aveva fatto presagire.
Alcuni momenti visivamente disneyani fanno da cornice ad una povertà di contenuti notevole, come l’arrivo del protagonista a casa della cugina Daisy e del marito spaccone, che si presenta come una scena celestiale che richiama ad un sentore quasi magico, ma che risulta essere alla fine solamente un pomposo e zuccheroso richiamo al fiabesco. Alcune accelerazioni dello zoom, all’inizio, volte a mostrare la storia dall’esterno per poi avvicinarsi, incuriosendo lo spettatore, sono forzate e alcune riprese dall’alto della città dimostrano una megalomania stilistica che risulta un po’fastidiosa. I colori forti spesso colgono nel segno come nella scena del festino in casa dell’amante del marito, ma alla lunga sconfinano i margini dell’estetica, diventando pesanti e furbescamente riempitivi.
La storia diventa melodramma e sfocia in dramma sul finale, quasi per caso. Questo fa pendere il peso del film verso la conclusione, rendendo così la prima parte leggera e la seconda eccessiva, quasi che il film volesse recuperare, con uno sprint finale, calcando però troppo la mano, così da guastare l’equilibrio e trasformando così la pellicola in qualcosa di poco omogeneo.
La limpidezza di un personaggio oscuro e la frivolezza di una società che si mostrava sicura, questo è il contrasto che anima il film. Un personaggio che clona una battuta (vecchio mio) da un anziano amico scomparso che lo aveva aiutato (supplendo l’assenza della famiglia), che ne ricalca le orme diventandone forse il naturale successore, in contrasto con una società di cui Gatsby stesso è artefice, ma che si limita ad osservare dal balcone, con cauto distacco, senza giudizi, e per di più spinto al compimento di tale creazione da uno scopo più nobile di quanto la messinscena stessa
suggerirebbe. Non un edonista quindi, ma un uomo che sfrutta l’edonismo (altrui) per conseguire un obbiettivo che potrebbe essere definito, senza eccessi melensi, puro.
Le citazioni tratte dal libro, incastrate in maniera attenta e raccontate dalla voce narrante, servono per dare profondità al film. In definitiva una pellicola che fa dell’estetica visiva la sua parte forte, ma che pretende che basti appoggiare quest’ultima addosso alle spalle solide di un romanzo che ha fatto epoca, per trarne un prodotto buono, ma purtroppo così non è.
Voto 5
G.P.
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