Regia Ben Stiller
Attori Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott
Trama
Walter Mitty è un uomo anonimo che conduce una vita monotona e senza slanci. Ha però una fervida immaginazione e spesso la sua mente viaggia, conducendolo sull’onda di pensieri improvvisi e fantasiosi che lo allontanano dalla realtà. L’azienda per cui lavora, la prestigiosa rivista Life, sta subendo una fusione e quindi si prospetta un taglio del personale. A lui è stato affidato il compito di selezionare il fotogramma che diventerà la copertina dell’ultimo numero della rivista. Sean O’Connell, un avventuriero col quale è da anni in contatto, gli manda dei fotogrammi suggerendo il 25 come più adatto per la copertina, ma Walter, che non ha mai perso nulla in 16 anni di lavoro, non riesce a trovare il negativo selezionato. Trovando energia dagli incoraggiamenti di Cheryl , collega della quale è cotto, decide di lanciarsi alla ricerca del fotogramma smarrito e parte così per la Groenlandia.
Recensione
I sogni possono influenzare la realtà? Questa è la domanda alla base di questo film. Walter Mitty ha sempre vissuto nella sua testa, dividendo nettamente la realtà dalla finzione ed innalzando quest’ultima ad uno statuto di impossibilità. Questo ha ristretto da sempre le sue prospettive, relegandolo ad una vita monotona e vigliacca. Resosi conto di quanto la vita possa sembrare un sogno, Walter inizia a dare solidità ai suoi sogni, accogliendoli nella sua vita sottoforma di possibilità. Il coraggio e la curiosità verso l’ignoto lo hanno reso un essere umano più completo, tramutandolo in ciò che avrebbe voluto essere, ma che aveva solo sognato di poter essere. La conquista più a portata di mano, ma anche la più difficile da raggiungere (forse perché la più realizzabile), ovviamente è rappresentata da una donna: un’occasione così prossima a somigliare alla felicità da risultare irraggiungibile. Bolle di sapone che esplodono contro la realtà della sua esistenza, che spinte dalla voce della ragazza di cui è totalmente cotto, si ordinano e prendono consistenza, trasformando la sua esistenza.
Ben Stiller disegna un personaggio timido e riservato, ma pronto ad esplodere: l’accendino in mano lo ha sempre avuto a quanto pare, ma non lo ha mai utilizzato, forse perché semplicemente non sapeva di possederne uno. Un film che dà coraggio e ti fa dire: “beh, se ce l’ha fatta lui…”, che riesce a gettare lo sguardo su una storia che diventa sempre più compatta, evidenziando l’indole magmatica del suo protagonista, colta nel suo momento di evoluzione. L’ironia del personaggio è pacata e sottotono, ma ispira tenerezza e per alcuni forse, un senso immedesimazione. Viene però distorta per un attimo, in una particolare scena: la citazione de Lo strano caso di Benjamin Button. In questo spezzone sembra quasi che Ben Stiller non sappia resistere alla comicità spiccatamente demenziale che gli è propria, facendola confluire in una scena che onestamente fa ridere parecchio, ma che tradisce il tono del film. La scena con Sean Penn mantiene invece intatta la sua ironia stralunata, con l’aggiunta di una serietà che sembra costantemente per cedere allo sberleffo, ma che invece viene mantenuta in equilibrio, contribuendo così ad innalzare questo spezzone a scena clou, nella quale le fila del racconto si uniscono in attesa della sorpresa finale.
Un buon film nel quale i momenti solo sognati, dapprima si incastrano con quelli reali, ma con lo scorrere del film vengono sostituiti da questi ultimi. Nella sostanza Stiller ha saputo costruire, non senza qualche intoppo a livello di ritmo, un film con uno sviluppo interessante, nel quale il protagonista si barcamena tra le varie difficoltà della vita, guardando finalmente in faccia la paura e lo spettro del fallimento, mostrandoci così come la fantasia possa essere l’arma più efficace e concreta per superarli. Una pellicola che filma il lancio del cuore oltre l’ostacolo di Walter Mitty, piccolo uomo dalle possibilità grandi quanto i suoi sogni, che diventa adulto proprio travasando un poco della magia presente nelle sue fantasie, dentro la realtà. Così, senza badare troppo alle
conseguenze, sembra suggerirci che il valore del coraggio risiede proprio nella capacità di saper sognare in grande, a condizione che però i sogni vengano presi sul serio.
Voto 7
G.P.
Regia Woody Allen
Attori Cate Blanchett, Alec Baldwin, Bobby Cannavale, Sally Hawkins
Trama
Jeanette Francis, detta Jasmine, è una donna che vede la sua vita perfetta andare completamente in pezzi. Prima che suo marito Harnold, ricco uomo d’affari, andasse in galera, conduceva un’esistenza perfetta a Manhattan, immersa nel lusso ed impegnata ad organizzare party per l’elite della Grande Mela. Caduta in rovina riallaccia i rapporti con la sorella Ginger, residente a San Francisco, domandandole di ospitarla. La donna vive col suo nuovo ragazzo Chili, ed ha due figli da una precedente relazione. La convivenza tra le due sorelle non è affatto facile, Jasmine è però decisa a riordinare la sua vita, cercando così di riemergere da uno stato di pericolosa malinconia, che sembra però in piena espansione.
Recensione
Woody Allen da sempre ci ha abituati a commedie caratterizzate da marcate sfumature esistenziali, nelle quali il suo umorismo sottile smorza ed al contempo inasprisce la sua concezione amara della vita. Il suo pessimismo è diventato un suo elemento di distinzione, come la sua ironia cinica e sconsolata. In questo film i toni si abbassano e la vivace abbondanza di materiale comico, tipica del suo repertorio, sparata a raffica in film come Basta che funzioni (bellissimo!), rimane in sordina, lasciando spazio ad uno stile sicuramente più misurato e sotto le righe nella forma, ma dal contenuto decisamente più amaro, soprattutto negli esiti della storia e nelle sue conclusioni. In Basta che funzioni la felicità era a tempo determinato: si gioisce per quanto sia consentito, attendendo che la ghigliottina faccia il suo mestiere. Qui invece la vita è concepita come una pugnalata al fianco, un tormento continuo, una fregatura costante. L’ironia che emerge in questa pellicola scaturisce dalla paradossalità delle scene e dalla pena che suscitano i vari personaggi, del tutto ignari delle loro situazioni, e quindi ancora più patetici. Torna di nuovo, quindi, il tema dell’illusione come unica chiave per la felicità, che ha come sole alternative la follia o l’insoddisfazione, anche se lucida, e quindi ancor più lancinante. Differenti manifestazioni di squallore dunque, ai quali Allen ci avvicina trasmettendoci il suo senso di pena e il suo disagio profondo, senza concedere però ai personaggi nemmeno un po’ di pietà. È tragico il dimenarsi che la povera Jasmine mette in mostra per l’intera durata della pellicola: un movimento disarticolato e sgraziato, animato dal solo intento di non guardare in faccia l’inevitabile rovina. Ed è proprio questo suo goffo tentativo di mantenersi eretta e signorile lungo il patibolo, che rende tragicamente grottesco il suo personaggio, conferendole al contempo anche un’elevata statura, quasi simbolica, proprio a causa di questa incosciente superficialità e di una regalità appassita e definitivamente deturpata.
La struttura della storia richiama alle sceneggiature care soprattutto all’ultimo Allen, fatte di incontri fortuiti, di momenti di temporanea distensione e di rivoluzioni inaspettate che, come all’interno di un gigantesco monopoli esistenziale, riportano le pedine al loro punto di partenza, ripristinandone le posizioni iniziali e andando a ricreare così una sorta di eterno ritorno dal sapore nietzschano (fonte d’ispirazione dichiarata dello stesso regista).
Un film corale quindi, nel quale però spicca la grandezza da prima donna di Cate Blanchett, che, a quanto dicono, si è già prenotata un posto in prima fila per la corsa agli Oscar. È mirabile infatti il lavoro che svolge sul personaggio: le sfumature che riesce a creare sono assai calibrate, l’esaltazione e lo spaesamento sono alternate in maniera credibilissima, sia nei momenti di interazione con altri che durante i suoi discorsi paranoici e solitari. Le sabbie mobili sulle quali si trova a camminare sono incarnate dalle situazioni catastrofiche nelle quali si imbatte, in cui il suo occhio disorientato è sempre alla spasmodica ricerca di pillole o di bottiglie di alcolici. La lucidità
che sembra mancarle ritorna, seppur per poco tempo, quando realizza pensieri profondi e disperati, spietati a tal punto da turbare chi l’ascolta. Inoltre i conseguenti deliri raggiungono dei picchi d’intensità altissimi attraverso degli sguardi distorti e folli, che in qualche modo sembrano richiamare il delirio ossessivo dell’attrice decaduta del cinema muto, interpretata da Gloria Swanson nel film Viale del tramonto di Billy Wilder.
Un film dunque che sa sviluppare in maniera particolare i temi cari (carissimi) al regista, cosa non sempre possibile a causa di una saltuaria mancanza di ispirazione dovuta ad un’altissima densità produttiva (circa un film all’anno) che, a detta dello stesso Allen, gli serve per non pensare troppo: una sorta di terapia psicoanalitica volta a sopportare lo spettro della morte che lentamente gli si avvicina. Spettro che in questo film non appare nella maniera classica, ma che si insinua dentro le azioni e i pensieri dei personaggi, manifestandosi sotto la forma dell’impossibilità costante di autorealizzarsi, che mina alla base le esistenze dei personaggi, inaridendone le aspirazioni ed annullandone le azioni. Un film mortifero in maniera sotterranea, che esalta le capacità del regista, rivelandone l’attenzione alle sfumature e la sensibilità nel cogliere le amarezze insopportabili di cui può essere fatta un’esistenza colma di aspirazioni sfumate.
Voto 8
G.P.
Regia Joshua Michael Stern
Attori Ashton Kutcher, Matthew Modine, Josh Gad, Dermont Mulroney
Trama
La vita di Steve Jobs raccontata dagli inizi, quando ancora studente universitario sognava di inventare qualcosa di originale, diventando poi fondatore della Apple e passando attraverso momenti difficili e crisi personali.
Recensione
Realizzare un biopic è senza dubbio un’impresa complicata anche se può sembrare il contrario, dato che la storia è già stata scritta in prima persona da colui che si è apprestato a viverla. Partendo da questo presupposto si finisce però col ridurre il film ad una fiction senza spessore, come è capitato proprio in questa pellicola. Jobs non sfrutta le potenzialità di un personaggio gigantesco nelle ambizioni, e limitatissimo nella capacità affettive: parabola amara su una forma di potere che si è obbligati a raggiungere, forse spinti dalla convinzione di dover provare qualcosa, o mossi da una passione che invece che animare, agita e tramortisce. La passione è infatti la sfumatura più vivida che questo film conferisce al personaggio: il focus sulla sua anima indomita, che non conosce resa, restituisce a questo personaggio un po’ di luce (e allo spettatore la curiosità). Ma il contrasto con le sue zone d’ombra risulta poco approfondito, o approfondito in maniera standard e banale, ricalcando la stessa psiche di Mark Zuckerberg in The social network. Contrariamente a quest’ultimo film, però, non c’è un’angolatura speciale dalla quale è stata osservata la storia (il processo ai danni del creatore di facebook, nel film sopracitato); non è un punto particolare della vita del protagonista ad essere analizzato più approfonditamente, ma la sua esistenza è scomposta nelle tappe connesse ai suoi successi o insuccessi professionali, evidenziando i crocevia della sua carriera, peraltro senza la giusta attenzione. Così facendo, quando Steve ricorda gli avvenimenti passati, allo spettatore (o per lo meno al sottoscritto) sembra si stia parlando di momenti non poi così distanti nel tempo cronologico della storia, ma, al contrario, appena vissuti, proprio perché non sono colti in tutta la loro forza, ma vengono solo menzionati senza mostrare come il protagonista li assimili e come da questi venga mutato. Il risultato è che gli unici cambiamenti lampanti, che si notano con immediatezza, sono quelli dovuti al look del protagonista, che cambia negli anni.
Rino Gaetano cantava: “e quando la tua mante prende il volo ti accorgi che sei rimasto solo”: ecco è proprio questa la storia del protagonista, quella dell’incompreso che alla solitudine risponde con l’isolamento volontario e con l’esaltazione del proprio lavoro, quasi che il rincorrere il progresso non fosse altro che un tentativo di fuga dall’insoddisfazione. Jobs si aggira lungo tutto l’arco del film con un’andatura curva, quasi che questa fosse la manifestazione di un tormento, che però la pellicola si limita a filmare e a riprodurre nella mimica e nella postura, riducendo così un personaggio così complesso ad una macchietta. Rimane quindi un elemento simbolico, questa camminata grottesca, ma anche la metafora di un film che si sofferma sugli aspetti più visibili del suo protagonista, non sapendo però andare oltre. La sua battaglia contro coloro che vogliono impossessarsi della sua creatura è trattata come fosse una bega di condominio, senza intensità e senza la necessaria curiosità, volta a capire l’importanza che l’azienda ha per il suo fondatore. Tra un pianto ed uno scatto d’ira il film si trascina verso un finale enfatico che si chiude con la frase-slogan (“questo video è dedicato ai folli…”) che è stata usata a suo tempo come spot per il prodotto. La banalizzazione di un discorso così incisivo è cominciata dall’accostamento del medesimo alla pubblicità del marchio, e si è compiuta con il suo ulteriore utilizzo per il finale di questo film, che a sua volta sembra non un biopic, ma l’ennesima pubblicità all’azienda, visto lo scarsissimo coinvolgimento emotivo e lo stile da telefilm adolescenziale con il quale è stato realizzato.
Voto 4/5
G.P.