martedì 31 dicembre 2013

I Sogni Segreti di Walter Mitty - Recensione


Regia Ben Stiller
Attori Ben Stiller, Kristen Wiig, Sean Penn, Adam Scott

Trama

Walter Mitty è un uomo anonimo che conduce una vita monotona e senza slanci. Ha però una fervida immaginazione e spesso la sua mente viaggia, conducendolo sull’onda di pensieri improvvisi e fantasiosi che lo allontanano dalla realtà. L’azienda per cui lavora, la prestigiosa rivista Life, sta subendo una fusione e quindi si prospetta un taglio del personale. A lui è stato affidato il compito di selezionare il fotogramma che diventerà la copertina dell’ultimo numero della rivista. Sean O’Connell, un avventuriero col quale è da anni in contatto, gli manda dei fotogrammi suggerendo il 25 come più adatto per la copertina, ma Walter, che non ha mai perso nulla in 16 anni di lavoro, non riesce a trovare il negativo selezionato. Trovando energia dagli incoraggiamenti di Cheryl , collega della quale è cotto, decide di lanciarsi alla ricerca del fotogramma smarrito e parte così per la Groenlandia.

Recensione

I sogni possono influenzare la realtà? Questa è la domanda alla base di questo film. Walter Mitty ha sempre vissuto nella sua testa, dividendo nettamente la realtà dalla finzione ed innalzando quest’ultima ad uno statuto di impossibilità. Questo ha ristretto da sempre le sue prospettive, relegandolo ad una vita monotona e vigliacca. Resosi conto di quanto la vita possa sembrare un sogno, Walter inizia a dare solidità ai suoi sogni, accogliendoli nella sua vita sottoforma di possibilità. Il coraggio e la curiosità verso l’ignoto lo hanno reso un essere umano più completo, tramutandolo in ciò che avrebbe voluto essere, ma che aveva solo sognato di poter essere. La conquista più a portata di mano, ma anche la più difficile da raggiungere (forse perché la più realizzabile), ovviamente è rappresentata da una donna: un’occasione così prossima a somigliare alla felicità da risultare irraggiungibile. Bolle di sapone che esplodono contro la realtà della sua esistenza, che spinte dalla voce della ragazza di cui è totalmente cotto, si ordinano e prendono consistenza, trasformando la sua esistenza.
Ben Stiller disegna un personaggio timido e riservato, ma pronto ad esplodere: l’accendino in mano lo ha sempre avuto a quanto pare, ma non lo ha mai utilizzato, forse perché semplicemente non sapeva di possederne uno. Un film che dà coraggio e ti fa dire: “beh, se ce l’ha fatta lui…”, che riesce a gettare lo sguardo su una storia che diventa sempre più compatta, evidenziando l’indole magmatica del suo protagonista, colta nel suo momento di evoluzione. L’ironia del personaggio è pacata e sottotono, ma ispira tenerezza e per alcuni forse, un senso immedesimazione. Viene però distorta per un attimo, in una particolare scena: la citazione de Lo strano caso di Benjamin Button. In questo spezzone sembra quasi che Ben Stiller non sappia resistere alla comicità spiccatamente demenziale che gli è propria, facendola confluire in una scena che onestamente fa ridere parecchio, ma che tradisce il tono del film. La scena con Sean Penn mantiene invece intatta la sua ironia stralunata, con l’aggiunta di una serietà che sembra costantemente per cedere allo sberleffo, ma che invece viene mantenuta in equilibrio, contribuendo così ad innalzare questo spezzone a scena clou, nella quale le fila del racconto si uniscono in attesa della sorpresa finale.
Un buon film nel quale i momenti solo sognati, dapprima si incastrano con quelli reali, ma con lo scorrere del film vengono sostituiti da questi ultimi. Nella sostanza Stiller ha saputo costruire, non senza qualche intoppo a livello di ritmo, un film con uno sviluppo interessante, nel quale il protagonista si barcamena tra le varie difficoltà della vita, guardando finalmente in faccia la paura e lo spettro del fallimento, mostrandoci così come la fantasia possa essere l’arma più efficace e concreta per superarli. Una pellicola che filma il lancio del cuore oltre l’ostacolo di Walter Mitty, piccolo uomo dalle possibilità grandi quanto i suoi sogni, che diventa adulto proprio travasando un poco della magia presente nelle sue fantasie, dentro la realtà. Così, senza badare troppo alle
conseguenze, sembra suggerirci che il valore del coraggio risiede proprio nella capacità di saper sognare in grande, a condizione che però i sogni vengano presi sul serio.

Voto 7

G.P.

venerdì 20 dicembre 2013

Blue Jasmine - Recensione


Regia Woody Allen
Attori Cate Blanchett, Alec Baldwin, Bobby Cannavale, Sally Hawkins

Trama

Jeanette Francis, detta Jasmine, è una donna che vede la sua vita perfetta andare completamente in pezzi. Prima che suo marito Harnold, ricco uomo d’affari, andasse in galera, conduceva un’esistenza perfetta a Manhattan, immersa nel lusso ed impegnata ad organizzare party per l’elite della Grande Mela. Caduta in rovina riallaccia i rapporti con la sorella Ginger, residente a San Francisco, domandandole di ospitarla. La donna vive col suo nuovo ragazzo Chili, ed ha due figli da una precedente relazione. La convivenza tra le due sorelle non è affatto facile, Jasmine è però decisa a riordinare la sua vita, cercando così di riemergere da uno stato di pericolosa malinconia, che sembra però in piena espansione.

Recensione

Woody Allen da sempre ci ha abituati a commedie caratterizzate da marcate sfumature esistenziali, nelle quali il suo umorismo sottile smorza ed al contempo inasprisce la sua concezione amara della vita. Il suo pessimismo è diventato un suo elemento di distinzione, come la sua ironia cinica e sconsolata. In questo film i toni si abbassano e la vivace abbondanza di materiale comico, tipica del suo repertorio, sparata a raffica in film come Basta che funzioni (bellissimo!), rimane in sordina, lasciando spazio ad uno stile sicuramente più misurato e sotto le righe nella forma, ma dal contenuto decisamente più amaro, soprattutto negli esiti della storia e nelle sue conclusioni. In Basta che funzioni la felicità era a tempo determinato: si gioisce per quanto sia consentito, attendendo che la ghigliottina faccia il suo mestiere. Qui invece la vita è concepita come una pugnalata al fianco, un tormento continuo, una fregatura costante. L’ironia che emerge in questa pellicola scaturisce dalla paradossalità delle scene e dalla pena che suscitano i vari personaggi, del tutto ignari delle loro situazioni, e quindi ancora più patetici. Torna di nuovo, quindi, il tema dell’illusione come unica chiave per la felicità, che ha come sole alternative la follia o l’insoddisfazione, anche se lucida, e quindi ancor più lancinante. Differenti manifestazioni di squallore dunque, ai quali Allen ci avvicina trasmettendoci il suo senso di pena e il suo disagio profondo, senza concedere però ai personaggi nemmeno un po’ di pietà. È tragico il dimenarsi che la povera Jasmine mette in mostra per l’intera durata della pellicola: un movimento disarticolato e sgraziato, animato dal solo intento di non guardare in faccia l’inevitabile rovina. Ed è proprio questo suo goffo tentativo di mantenersi eretta e signorile lungo il patibolo, che rende tragicamente grottesco il suo personaggio, conferendole al contempo anche un’elevata statura, quasi simbolica, proprio a causa di questa incosciente superficialità e di una regalità appassita e definitivamente deturpata.
La struttura della storia richiama alle sceneggiature care soprattutto all’ultimo Allen, fatte di incontri fortuiti, di momenti di temporanea distensione e di rivoluzioni inaspettate che, come all’interno di un gigantesco monopoli esistenziale, riportano le pedine al loro punto di partenza, ripristinandone le posizioni iniziali e andando a ricreare così una sorta di eterno ritorno dal sapore nietzschano (fonte d’ispirazione dichiarata dello stesso regista).
Un film corale quindi, nel quale però spicca la grandezza da prima donna di Cate Blanchett, che, a quanto dicono, si è già prenotata un posto in prima fila per la corsa agli Oscar. È mirabile infatti il lavoro che svolge sul personaggio: le sfumature che riesce a creare sono assai calibrate, l’esaltazione e lo spaesamento sono alternate in maniera credibilissima, sia nei momenti di interazione con altri che durante i suoi discorsi paranoici e solitari. Le sabbie mobili sulle quali si trova a camminare sono incarnate dalle situazioni catastrofiche nelle quali si imbatte, in cui il suo occhio disorientato è sempre alla spasmodica ricerca di pillole o di bottiglie di alcolici. La lucidità
che sembra mancarle ritorna, seppur per poco tempo, quando realizza pensieri profondi e disperati, spietati a tal punto da turbare chi l’ascolta. Inoltre i conseguenti deliri raggiungono dei picchi d’intensità altissimi attraverso degli sguardi distorti e folli, che in qualche modo sembrano richiamare il delirio ossessivo dell’attrice decaduta del cinema muto, interpretata da Gloria Swanson nel film Viale del tramonto di Billy Wilder.
Un film dunque che sa sviluppare in maniera particolare i temi cari (carissimi) al regista, cosa non sempre possibile a causa di una saltuaria mancanza di ispirazione dovuta ad un’altissima densità produttiva (circa un film all’anno) che, a detta dello stesso Allen, gli serve per non pensare troppo: una sorta di terapia psicoanalitica volta a sopportare lo spettro della morte che lentamente gli si avvicina. Spettro che in questo film non appare nella maniera classica, ma che si insinua dentro le azioni e i pensieri dei personaggi, manifestandosi sotto la forma dell’impossibilità costante di autorealizzarsi, che mina alla base le esistenze dei personaggi, inaridendone le aspirazioni ed annullandone le azioni. Un film mortifero in maniera sotterranea, che esalta le capacità del regista, rivelandone l’attenzione alle sfumature e la sensibilità nel cogliere le amarezze insopportabili di cui può essere fatta un’esistenza colma di aspirazioni sfumate.

Voto 8


G.P.

domenica 8 dicembre 2013

Jobs - Recensione


Regia Joshua Michael Stern
Attori Ashton Kutcher, Matthew Modine, Josh Gad, Dermont Mulroney

Trama

La vita di Steve Jobs raccontata dagli inizi, quando ancora studente universitario sognava di inventare qualcosa di originale, diventando poi fondatore della Apple e passando attraverso momenti difficili e crisi personali.

Recensione

Realizzare un biopic è senza dubbio un’impresa complicata anche se può sembrare il contrario, dato che la storia è già stata scritta in prima persona da colui che si è apprestato a viverla. Partendo da questo presupposto si finisce però col ridurre il film ad una fiction senza spessore, come è capitato proprio in questa pellicola. Jobs non sfrutta le potenzialità di un personaggio gigantesco nelle ambizioni, e limitatissimo nella capacità affettive: parabola amara su una forma di potere che si è obbligati a raggiungere, forse spinti dalla convinzione di dover provare qualcosa, o mossi da una passione che invece che animare, agita e tramortisce. La passione è infatti la sfumatura più vivida che questo film conferisce al personaggio: il focus sulla sua anima indomita, che non conosce resa, restituisce a questo personaggio un po’ di luce (e allo spettatore la curiosità). Ma il contrasto con le sue zone d’ombra risulta poco approfondito, o approfondito in maniera standard e banale, ricalcando la stessa psiche di Mark Zuckerberg in The social network. Contrariamente a quest’ultimo film, però, non c’è un’angolatura speciale dalla quale è stata osservata la storia (il processo ai danni del creatore di facebook, nel film sopracitato); non è un punto particolare della vita del protagonista ad essere analizzato più approfonditamente, ma la sua esistenza è scomposta nelle tappe connesse ai suoi successi o insuccessi professionali, evidenziando i crocevia della sua carriera, peraltro senza la giusta attenzione. Così facendo, quando Steve ricorda gli avvenimenti passati, allo spettatore (o per lo meno al sottoscritto) sembra si stia parlando di momenti non poi così distanti nel tempo cronologico della storia, ma, al contrario, appena vissuti, proprio perché non sono colti in tutta la loro forza, ma vengono solo menzionati senza mostrare come il protagonista li assimili e come da questi venga mutato. Il risultato è che gli unici cambiamenti lampanti, che si notano con immediatezza, sono quelli dovuti al look del protagonista, che cambia negli anni.
Rino Gaetano cantava: “e quando la tua mante prende il volo ti accorgi che sei rimasto solo”: ecco è proprio questa la storia del protagonista, quella dell’incompreso che alla solitudine risponde con l’isolamento volontario e con l’esaltazione del proprio lavoro, quasi che il rincorrere il progresso non fosse altro che un tentativo di fuga dall’insoddisfazione. Jobs si aggira lungo tutto l’arco del film con un’andatura curva, quasi che questa fosse la manifestazione di un tormento, che però la pellicola si limita a filmare e a riprodurre nella mimica e nella postura, riducendo così un personaggio così complesso ad una macchietta. Rimane quindi un elemento simbolico, questa camminata grottesca, ma anche la metafora di un film che si sofferma sugli aspetti più visibili del suo protagonista, non sapendo però andare oltre. La sua battaglia contro coloro che vogliono impossessarsi della sua creatura è trattata come fosse una bega di condominio, senza intensità e senza la necessaria curiosità, volta a capire l’importanza che l’azienda ha per il suo fondatore. Tra un pianto ed uno scatto d’ira il film si trascina verso un finale enfatico che si chiude con la frase-slogan (“questo video è dedicato ai folli…”) che è stata usata a suo tempo come spot per il prodotto. La banalizzazione di un discorso così incisivo è cominciata dall’accostamento del medesimo alla pubblicità del marchio, e si è compiuta con il suo ulteriore utilizzo per il finale di questo film, che a sua volta sembra non un biopic, ma l’ennesima pubblicità all’azienda, visto lo scarsissimo coinvolgimento emotivo e lo stile da telefilm adolescenziale con il quale è stato realizzato.

Voto 4/5

G.P.

sabato 23 novembre 2013

Sole a Catinelle - Recensione



Regia Gennaro Nunziante

Attori Checco Zalone, Aurore Erguy, Miriam Dalmazio, Robert Dancs, Ruben Aprea

Trama

Checco Zalone è un lavoratore stanco di dipendere da un’azienda che sembra non valorizzarlo. Decide così di licenziarsi per trovare fortuna come venditore di aspirapolverei porta a porta. Sceglie però il periodo peggiore, perché la fabbrica in cui la moglie lavora rischia di chiudere. Inoltre in questa situazione economicamente disastrosa, Checco promette al figlio una vacanza da sogno, in caso di una promozione a pieni voti. Questo accade, così padre e figlio partono per una vacanza sgangherata ed improbabile verso una meta misteriosa ed improvvisata.

Recensione

Come altri addetti ai lavori che popolano il mondo dello spettacolo anche Checco Zalone (storpiatura dell’espressione dialettale “che cozzalone” ovvero “che tamarro”, vero nome Luca Medici) trae ispirazione per il suo ultimo film dal tema del momento: la crisi, interpretandola a suo modo e rivisitandola attraverso una comicità sboccata, che viene affidata alle “gesta” del suo alterego e omonimo cinematografico. Non ha quindi intenti di analisi o propositi di soluzione (e ci mancherebbe), ma segue quello che è il suo stile, basato sullo sberleffo maleducato, volto a inquadrare l’italiano medio (che forse non capisce fino in fondo che è proprio di lui che si sta parlando). L’elemento che contribuisce a rendere comiche le sue disavventure è certamente una grossa dose di fortuna sfacciata che alla fine incorona lo scemo del villaggio come inconsapevole vincitore. Come un Forrest Gump nostrano, lo strampalato self made man non fa altro che fraintendere e deludere chi lo circonda, ma rocambolescamente riesce a superare una selva di ostacoli, rimanendo in equilibrio sul filo teso sopra la sua esistenza malandata. L’ottimismo che Zalone decanta e di cui si fa manifesto è parodiato e tramutato in un misto di incoscienza e strafottenza che (quasi esclusivamente nei film) conduce direttamente in bocca ad un inevitabile lieto fine. Il protagonista appare quasi come un cartoon, per il suo modo genuino e un po’ volgare di porsi, caratterizzato da un’ingenuità infantile dovuta ad un’ignoranza smisurata, e l’ottimismo sopra citato sembra essere motivato dal fatto che semplicemente abbia sentito dire in televisione che “bisogna averlo”, e quindi non è mosso da una speranza radicata o da una fede incrollabile in qualche cosa. Il film quindi si regge su un personaggio/maschera ormai collaudato, che qui viene trasposto in un nuovo contesto, ma anche su uno stile comico rodato, tutto costruito sulla maldestra ignoranza del protagonista, poi esaltata da una struttura di racconto concepita come un susseguirsi di sketch e situazioni comiche. Ovviamente non si tratta di un film nuovo nello stile, poiché la ditta Zalone/Nunziante non si cimenta nella sperimentazione di nuovi meccanismi comici, né tanto meno azzarda un cambio di registro perché squadra che vince non si cambia (dove per “vince” ovviamente si intende “sbancare il botteghino”), ma si limita a liberare l’ignaro sempliciotto di paese all’interno di una situazione caotica, che però incredibilmente ed inconsapevolmente egli riesce in qualche modo a riordinare, tramutandosi nell’eroe di una favola dai toni sboccati e (come si usa dire) politicamente scorretti. Si tratta del solito prodotto godibile che sembra non avere grossi margini di esplorazione da parte di chi costruisce e interpreta le storie, ma al contempo la nuova maschera comica non sembra avere ancora esaurito la carica esplosiva che da qualche anno a questa parte la anima. L’unica speranza in tal senso è che questa macchietta possa trovare nuovi spazi in cui muoversi, e soprattutto ci si augura, che quando questi saranno esauriti, si possa avere il buon gusto necessario per non azzardare inutili tentativi di rianimazione ai danni della salma di un divertimento che fu (oltre che ai danni dello spettatore), come hanno fatto i fratelli Vanzina e Neri Parenti con il loro interminabile filone di film natalizi.

Voto 5/6


G.P.


lunedì 28 ottobre 2013

Cose Nostre (Malavita) - Recensione


Regia Luc Besson
Attori Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Dianna Agron, John D’Leo, Tommy Lee Jones

Trama

La famiglia Manzoni (padre, madre, e due figli adolescenti) si trova costretta a cambiare il nome in Blake e ad emigrare in Francia dagli Stati Uniti, dopo essere stata inserita nel programma di protezione testimoni dalla polizia. Nella nuova località dovrà fare i conti con la convivenza difficile con gli abitanti della tranquilla cittadina che li ospita, cercando di non farsi smascherare dai vecchi “soci in affari”, che stanno cercando Giovanni, il capo famiglia, per fargliela pagare.

Recensione

Il film è spesso poco incisivo e caratterizzato dalla presenza di uno humor che solo talvolta coglie nel segno, battendo costantemente sullo stesso tasto: mira infatti ad ironizzare sulla violenza che la famiglia, in modi differenti, perpetra nei confronti di ogni qualsivoglia intruso che giunge dall’esterno, minandone la serenità. Ha il difetto di non avere equilibrio e di non essere affatto omogeneo, caratteristica che si manifesta nei mal accostati momenti di ironia e di dramma, che finiscono per depotenziare la carica umoristica della pellicola, ridicolizzandone le parti drammatiche. Gli attori raggiungono la sufficienza, e le due superstar si collocano sul piano dei due attori emergenti, lasciando loro lo spazio per poter emergere. De Niro in particolare ricopre il ruolo che ha caratterizzato la sua carriera, quello del gangster, ricorrendo alle sue tipiche espressioni facciali, senza cadere però nell’eccesso che ha minato la sua credibilità nell’ultima decade, tramutandolo in una sorta di caricatura di se stesso. Il gangster pentito con attacchi d’ira incontrollati che emerge in questo film, non è niente di eccelso, ma nemmeno deturpa il passato glorioso dell’attore italo-americano e dei suoi celebri ruoli da malavitoso. La Pfeiffer invece risulta un po’sottotono, pur mantenendo la sinuosità e l’espressione conturbante di un tempo. La regia è poco classica e sembra particolarmente interessata a far coesistere il dramma con la commedia. Appare però incerta nel raggiungimento del suo proposito, e Besson dà l’impressione di non riuscire a guidare al meglio la storia, che infatti sbanda qua e là, regalando talvolta qualche guizzo, ma lasciando trasparire soprattutto un mancato equilibrio nella gestione del tono della storia ed un maldestro dosaggio dei due elementi che invece vorrebbe bilanciare.
La componente comica, come detto, è affidata all’incompatibilità di ogni singolo elemento della famiglia con l’ambiente all’interno del quale dovrebbe mimetizzarsi. Questo espediente fa risultare l’intero nucleo famigliare come distante anni luce dall’habitat in cui si trova, ed ogni tentativo di inserimento diventa matematicamente un fallimento. Il negozio dato alle fiamme, le martellate “giustificate” di De Niro, il racket scolastico e il modo troppo diretto di gestire gli spasimanti indesiderati, rappresentano quindi il meglio di una comicità che non colpisce mai direttamente nel segno, lasciando allo spettatore il gusto di un sorriso smorzato e talvolta poco convinto. Alcune trovate sono discrete, come la citazione di Quei bravi ragazzi: un dichiarato omaggio a De Niro, che si ritrova, per l’appunto, a guardare se stesso sullo schermo, in un espediente frizzante quel tanto che basta per scuotere il torpore che fino a quel momento addormenta il film (tale momento però è solo lasciato intendere allo spettatore, altrimenti l’operazione meta cinematografica sarebbe risultata assai troppo bizzarra e alquanto auto compiaciuta). Discreta trovata dunque, che fa però da ponte per un finale che tradisce completamente il resto della pellicola, soprattutto nel suo ricorrere ad un uso “serio” della violenza, che fino a quel momento era stata ridotta a semplice espediente umoristico. La chiusura torna ad essere ironica, come per incanto, riducendosi però ad un debole tentativo volto a far rientrare la pellicola nei giusti binari, senza peraltro raggiungere lo scopo prefissato. Ne risulta quindi una commediola senza troppe pretese, con pochi momenti discreti ed alcuni momenti di noia, in cui la recitazione degli attori non esalta particolarmente i personaggi ed il potenziale dello spunto iniziale non viene valorizzato a dovere.

Voto 5

G.P.

mercoledì 9 ottobre 2013

Rush - Recensione


Regia Ron Howard
Attori Daniel Brul, Chris Hemsworth, Pierfrancesco Favino, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara

Trama

Il film racconta la storia della rivalità sportiva tre James Hunt e Niki Lauda, andando a ripercorrere i loro duelli automobilistici, dagli albori delle loro carriere in Formula 3 fino alla corsa per il titolo di campione del mondo di Formula 1. Andando ad analizzare le vite dei due piloti, il film si sofferma sugli episodi decisivi delle rispettive carriere, fino a quello più famoso dell’incidente occorso a Niki Lauda in Germania sul circuito del Nurburgring nell’agosto del 1976.

Recensione


Balla l’accendino sotto il tavolo durante la conferenza stampa prima della gara. A farlo ballare è la mano di James Hunt, pilota di Formula 1. Spavaldo davanti al mondo, strafottente con gli avversari (tanto da chiamare Lauda con l’appellativo di “topo”), ma lontano dagli sguardi altrui impaurito e nervoso. Vomita prima dalla gara, ma quello non fa notizia, è quasi un rito ormai. Lauda invece è impeccabile, freddo. E la sua freddezza non pare essere calcolata o di facciata, è semplicemente autentica: è misurato e rigoroso come un computer. La glaciale razionalità a cui ricorre per migliorare la macchina è la stessa che usa per tenere a bada gli altri, la sua assenza di tatto è lo specchio della sua determinazione. Due modelli di tenacia diversi, due professionisti agli antipodi, quindi, come differenti sono i loro modi di interpretare la sconfitta, la vittoria, la gara, il mestiere (e persino il matrimonio). Intrecciati però in una radice comune, che alla lunga sfocia in un rispetto profondo, dettato forse proprio dalla loro complementarietà. La storia è quella dei due classici opposti che non possono che intrigarsi e cercarsi: “Che gomme ha messo Lauda? Che gomme ha messo Hunt? Si copiano e spesso stanno immobili a studiarsi. Ognuno l’ossessione dell’altro, ognuno il metro di giudizio dell’altro, ognuno con il podio nel mirino, spinti da due visioni differenti dello sport, che ognuno rivendica ed innalza a stile di vita. Alla lunga Lauda la spunta, non tanto in gara, ma nella scelta del ruolo da interpretare durante propria esistenza: più misurata e contenuta, ma intensa almeno quanto quella dal rivale. Al contrario Hunt se ne frega del pericolo di morire o di rimanere ferito ed accetta di correre anche se questo supera il 20%. Però è Lauda a finire vittima della percentuale, con l’incidente che lo sfigurò. Da quel momento si fa quindi più disposto ad abbandonare la razionalità ed il calcolo del rischio, con lo scopo di salire di nuovo in macchina, spinto dal rivale, che nel frattempo rosicchia punti alla sua posizione in classifica. Hunt al contrario diventa più cauto. Ma non si può tradire a lungo la propria natura, e così l’eccesso tornerà di nuovo ad essere il marchio di fabbrica di Hunt, mentre la tattica e il calcolo saranno ancora una volta le fondamenta della disciplina di Lauda.  
Un film su un dualismo sportivo che ha nel pilota austriaco il personaggio centrale, ma che trova nel contendente inglese un risvolto della medaglia senza dubbio epico. Un personaggio, quest’ultimo, che sa incarnare il ruolo di antieroe strafottente e donnaiolo, dotato però di una purezza quasi infantile, ma anche di una tenacia ad intermittenza, tanto discontinua da dettarne i tempi delle ascese e delle cadute, sia in pista sia nella vita al di fuori delle corse. Eroe maledetto vittima del proprio egocentrismo Hunt, eroe suo malgrado Lauda, costretto a fare i conti con il dolore e la paura della morte, ma impavido e determinato nel tentativo di ritornare a correre; oltre che uomo tormentato e poco avvezzo alle relazioniproblema che lo costringerà a scendere a patti con la sua parte più emotiva ed umana, riconoscendole il peso che merita. 
Il film scorre in maniera regolare, con un lungo flashback, senza sbalzi temporanei troppo drastici. Molto lineare nello sviluppo della storia, sa condensare i momenti salienti, dando la sensazione che il film potrebbe reggere benissimo anche senza il suo punto centrale, nonchè pretesto della storia: l’infortunio di Lauda. Questo è sicuramente un punto a suo favore, poiché conferisce pari dignità tutte le parti del film a dispetto dell’ovvia centralità dovuta all’episodio dell’incidente. Ron Howard manifesta in questo film una capacità rappresentativa ed uno stile narrativo davvero impeccabili: le scene di gara sono curatissime sia visivamente sia dal punto di vista sonoro, senza sconfinare nello spettacolarismo (alla Michael Bay tanto per intenderci), evitando quindi de cedere all’uso eccessivo del ralenti o all’inutile chiasso delle solite esplosioni gratuite. Le scene più intime sono invece essenziali e caratterizzate da una sensibilità profonda che mai sfocia nel sentimentalismo spintodove anche i silenzi hanno il loro peso e sono gestiti in maniera intelligente, così da conferire maggiore spessore ai contenuti dei dialoghi.  
Il finale si concretizza in una chiusura molto convincente, che dona ulteriore verità e fascino all’intera pellicoladando vita ad una conclusione tinta di una nota di nostalgia. Tutto ciò grazie anche all’utilizzo dalle immagini di repertorio dei due piloti e alla voce fuori campo, che lascia emergere la stima che legava i due agguerriti rivali, sottolineando come, alla fine, la mancanza dell’uno trovi la sua eco nella malinconica tristezza dell’altro. 

Voto 8,5

G.P.

domenica 29 settembre 2013

Come ti Spaccio la Famiglia - Recensione


Regia Rawson Marshall Thurber 
Attori Jason Sudeikis, Jennifer Aniston, Nick Offerman, Emma Roberts, Ed Helms

Trama

David Burke è uno spacciatore di droga che si mantiene vendendo la migliore erba della sua zona, e lo svitato Brad è il grosso spacciatore che lo rifornisce. Un giorno in seguito ad una rapina subita in strada, David torna dal suo capo a mani vuote, derubato sia dei contanti che della droga. Per risarcirlo dei soldi mancanti Brad incarica David di andare oltre il confine col Messico e ritirare una “piccola quantità di droga”. Sapendo che si tratta di una missione suicida decide di andare accompagnato dalla famiglia. David però non ha famiglia e quindi è costretto ad improvvisarla: si fa così aiutare da Rose, spogliarellista indebitata che abita nel suo condominio, Don, goffo ragazzo che abita sul suo stesso pianerottolo, e Casey, ragazza sbandata che vive per strada e che bazzica la loro stessa zona. Tra contrattazioni e liti accese, decidono di partire per il Messico, pronti a recuperare la merce e a sfoggiare il meglio dei loro sorrisi per ottenere dalla polizia della dogana i lasciapassare che servono per tornare a casa. 

Recensione

Di recente sono approdate nei nostri cinema commedie spiritose e divertenti che non risparmiano l’uso di linguaggio scorretto e che trattano temi piccanti. Tra addii al celibato, addii al nubilato, feste adolescenziali e matrimoni, le sale cinematografiche sono state assaltate da pellicole caratterizzate da momenti di baldoria sfrenata, e di eccesso di qualsiasi genere. La variabile riguardo la riuscita del film sta come al solito nell’equilibrio e nella leggerezza, elementi che influenzano soprattutto un film di questo genere. Bene, la pellicola in questione ha una buona dose di equilibrio, e al contempo non risparmia battute piccanti e sberleffi irriverenti, mantenendo però sempre intatto lo spirito della risata, che non scade (quasi) mai nella volgarità compiaciuta. L’intreccio della storia è ben articolatoe la suspanse presente è spesso stemperata in momenti di comicità catartica. Lo spunto di partenza è molto buono perché lascia la possibilità alla trama di svilupparsi agilmente in più direzionipermettendo così agli attori di dare la giusta caratterizzazione comica ai rispettivi personaggi. Il tema della famiglia, pretesto attorno al quale la storia si snoda, viene affrontato con un approccio scanzonato e irriverente, facendo leva sui clichè della famiglia moderna, come il controllo ossessivo dei genitori, la ribellione degli adolescenti, fino a coniugarsi nel sempiterno tema dell’incomunicabilità tra mariti e mogli, ed ancora di più tra genitori e figli. I consigli maldestri dei genitori scuotono, seppur leggermente, la coscienza dei figli e questa inattesa propensione all’insegnamento suscita qualche risata, ed è proprio in queste scene che il film si fa più profondo (per così dire!), pur continuando a muoversi dentro i colorati confini della commedia demenziale. Gli argomenti sono declinati in chiave comica ed usati come spunti spesso azzeccati: questo approccio salva il film e lo spettatore dal rischio della pedanteria. Il campionario di sfortune che capita a questa famiglia improvvisata rasenta l’incredibile, ma è proprio questa incalzante serie di eventi che mette pepe alla storia, svelando a poco a poco il potenziale comico dei personaggi oltre a quello delle situazioniNella seconda parte sembra esserci però un cedimento caratterizzato da momenti più trash che divertenti, e da una narrazione che difetta un po’di freschezzaLo spirito irriverente del film tende infatti a eclissarsi, seppur parzialmente, e la storia perde d’intensità, dando vita ad una discontinuità evidente con la prima parte, e quindi un leggero cedimento non si può che registrarlo.  Non siamo ai livelli di Una notte da leoni, una commedia scoppiettante dall’inizio alla fine, ma comunque l’intento sembra essere quello, seppur la storia parta da uno spunto differente. Con Una notte da leoni ha in comune l’attore Ed Helms (Stu, maldestro dentista represso), che in quest’occasione interpreta Brad, lo spacciatore mandante del viaggio. Il suo personaggio è il più spericolato e immorale di tutti e di certo l’interpretazione di Helms trae gran parte della sua forza dal contrasto con il personaggio interpretato nel film precedente, che spiazza e diverte lo spettatoreA causa dell’argomento trattato, aleggia sul film la possibilità che la conclusione possa cedere ad una sfumatura dolciastra, che condurrebbe la storia verso un finale troppo stucchevole: fortunatamente però l’ultima inquadratura del film rimette le cose al loro posto, andando a confermare, con una massiccia dose di ironia, l’indole bizzarra dei singoli personaggi e, allo stesso tempo, la loro plausibile credibilità nei panni della classica famiglia americana. 

Voto 6,5


G.P.