lunedì 3 giugno 2013

La Grande Bellezza - Recensione



Trama

Jep Gambardella (Toni Servillo) è uno scrittore di 65 anni, che si occupa di articoli mondani e che trascorre la sua vita passando da una festa all'altra. Si era trasferito a Roma all'età di 26 anni, e giunto nella capitale comincia a frequentare feste e party. Un tempo aveva ambizioni da scrittore, infatti in gioventù scrisse L’Apparato Umano, libro che riscosse un discreto successo. Oggi invece si lascia prendere dall'incanto che Roma gli offre e si abbandona allo squallore a cui una vita senza scopo può condurre. Ha un amico, Romano (Carlo Verdone) che lo asseconda in tutto e che nonostante la differenza di cultura e di intelligenza che li separa, lo ammira e lo stima sinceramente. Durante le sue notti incontra intellettuali, che ospita sulla sua terrazza, e incontra anche Ramona (Sabrina Ferilli) la figlia di un suo lontano conoscente, alla quale sembra affezionarsi. Nel frattempo riceve anche la notizia della morte di sua ex fidanzata, lasciata quando erano ancora giovani. Continua così la sua esistenza cercando di resistere alla desolazione che lo opprime.

Recensione

È stato fin da subito paragonato alla Dolce Vita di Fellini per il soggetto, molto simile, e per il protagonista e la sua funzione di tramite tra pubblico e ambientazione, senza contare alcuni richiami espliciti.
Il mondo descritto è un mondo che non progredisce, intento com'è a specchiarsi: tutti si specchiano nella speranza di conservarsi, cercando invano di riprodurre ciò che è stato le sera prima e la sera prima ancora. Un mondo chiuso che è in cerca della sua coda e che, dopo averla addentata, la consuma con la foga di chi vuole ostinatamente bastare a se stesso; un trenino festante e ubriaco che parte spontaneamente per poi deragliare poco più in là. La festa diventa quindi un momento di isolamento collettivo, in cui se si raggiunge la consapevolezza di questa situazione e non si ha la forza di superarla e quindi, si diventa consci della propria imbalsamatura, arrendendosi ad una vita che non può che essere sempre simile a se stessa. La Roma descritta è una statua di marmo, levigata e bianca, imperturbabile, immutabile: cadaverica. E l’eternità che richiama con la sua presenza possente e solenne è la stessa alla quale mirano i personaggi annichiliti che popolano queste feste che hanno luogo negli attici situati nella zona ricca della città, dove la noia si lascia sentire meglio che in altri luoghi. Il richiamo al sacro è evidente e si mescola al profano, in una comunione di ritualità non poi così distanti, che hanno come radice la volontà di conservarsi.
La commozione del protagonista emerge però inaspettata, facendo capolino dalle crepe di un’emotività atrofizzata, e andandosi a chiamare, ripescandosi sotto forma di ricordo giovanile, sepolto da anni da luci e bicchieri lasciati alla pazienza di chi poi, di mattino, dovrà ripulire. La scena del ragazzo che si fotografa quotidianamente (continuando l’abitudine del padre che lo fotografava ogni giorno, fin dal giorno della sua nascita), per esempio, lo commuove: forse perché accostando il suo mondo, basato su un’apparenza frivola, al mondo del ragazzo, che nell'apparenza vede la volontà di un’auto scoperta e che rivendica lo specchiarsi come un meccanismo per cogliere la propria evoluzione e non per registrare la tanto superficiale rincorsa alla giovinezza (mai) ritrovata, riscopre le radici di una sensibilità che gli è propria, mai del tutto sommersa, che da anni non riusciva a cogliere in maniera così nitida.
Il film, pur non avendo una trama vera e propria, regge bene, riempiendo le due ore abbondanti che lo compongono. La solitudine dell’uomo è ben rappresentata e magistralmente incarnata da Toni Servillo. La natura dei suoi rapporti sociali è descritta in tutta la sua sterilità e il suo disincanto è colto ed analizzato a partire dalla sua radice più profonda: tutto ciò fa sì che il film si imbatta in temi universali senza perdere mai le redini, quasi come se la pellicola fosse la fenomenologia di una vita mancata, ma che si ritrova proprio nella consapevolezza di esserlo, pur non trovando, comunque, un suo compimento a causa di una volontà pigra, che lo relega ad una dimensione contemplativa, troppo povera quindi per essere completa.
Lo stile del film è tutt'altro che classico: lavora molto su traiettorie di camera elaborate, angolature particolari e un montaggio che nelle parti, per così dire, festaiole appare rapido e serrato, a riprodurre un’atmosfera forsennata. Si fa più morbido, invece nelle scene contemplative o in quelle dedicate al ricordo.
Lo stile di Sorrentino risente sempre del suo tocco grottesco, che però, se ben bilanciato, finisce con l’essere un elemento non solo decorativo, ma connotativo della storia e dei personaggi. A volte sembra voler eccedere e il grottesco sconfina nel ridicolo (per esempio la scena della Ferilli che nuota in piscina con la ciambella) in altre invece riesce ad essere incisivo e dissacrante con una freddezza incredibile, centrando il bersaglio con la maestria dell’arciere consumato (la scena del ritocco estetico, per dirne una).
I personaggi descritti sono pezzetti di un collage che si incastrano alla perfezione, e quelli più prossimi al protagonista, che gli gravitano attorno in qualità di amici o confidenti, sono di fatto gli uditori e i testimoni del disfacimento di Jep e sono ben caratterizzati (soprattutto Romano, interpretato da Verdone, in un ruolo inedito), bravi nel non eccedere e nell'assecondare la stanchezza che il protagonista porta con sé. Infine Servillo è camaleontico nell'assumere toni e espressioni che il suo stesso personaggio indossa come un indumento per mimetizzarsi dentro la fauna che ogni sera si accinge a frequentare. È magistrale quindi nel conferire al personaggio quel senso di vacuità e al contempo quella debordante sensibilità, che con l’andare degli anni è diventata un cadavere fatto di aspirazioni e di rimpianti, che potranno riprendere vita solo con l’abbandono a quello stupore davanti al quale Jep sembra volersi arrendere, in alcuni toccanti stralci del film.
Da notare l’ultima inquadratura, chiaro riferimento alla Dolce vita, ma decisamente differente nella durata e nel messaggio.
Un grande film che sa descrivere “gli sparuti e incostanti sprazzi di bellezza” e “lo squallore disgraziato” che “è l’uomo miserabile”. Un film che non si fa manifesto solo di un’epoca in disfacimento come la nostra, ma che attraverso l’analisi dell’uomo moderno scava a fondo raccordandosi con la sua essenza più desolata e desolante, avvicinandosi a quella che è la comprensione dell’uomo in sé e accostando l’orecchio a quella che è la sua anima o a ciò che ne rimane.

Voto 9

G.P.