domenica 16 ottobre 2016

Irrational Man - Recensione



Regia: Woody Allen
Interpreti: Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley.

Trama

Il Professore di filosofia Abe Lucas si trasferisce nell’università di Newark. Sul suo conto ci sono un’infinità di dicerie, volte a giustificarne il carattere schivo e malinconico: stando alla più cruda, il suo migliore amico sarebbe morto in guerra (decapitato) e questo lo avrebbe gettato in una profonda depressione. Le sue lezioni riflettono il suo stato d’animo disincantato e dolente e questo suo atteggiamento attrae molto Jill, una sua brillante studentessa, tanto che tra i due, nonostante lei sia sentimentalmente impegnata, nasce qualcosa di più di un’amicizia. Abe nel frattempo non riesce a rispondere alle avance esplicite della professoressa Rita Richards, proprio a causa del suo stato psicologico. Accidentalmente Abe e Jill assistono ad una conversazione che restituisce di colpo al professore la voglia di vivere: in una tavola calda una donna si lamenta del mancato affidamento dei figli in seguito ad un divorzio, recriminando contro il giudice incaricato del processo, che avrebbe fama di disonestà e scorrettezza. Così Abe, di punto in bianco, decide di farlo fuori. Per giustificare quest’atto, estremo e sconvolgente, Abe ricorre persino alle teorie filosofiche da lui ben conosciute, ma, ad omicidio compiuto, l’autoassoluzione più convincente gli viene offerta dallo stato di vitalità che prova al solo pensiero di commettere il delitto, e questa forse gli appare la giustificazione più convincente…

Recensione



Si sa, Woody Allen non è solito cambiare stile e neppure argomenti. Da decenni le sue pellicole sono incentrate su temi cupi e amari, che riflettono sull’insensatezza della vita, sulla sua casualità e sulla solitudine inesorabile a cui la “condizione di esistenti” conduce. Negli ultimi anni, come è stato spesso scritto e detto, si è dedicato al tema del delitto senza castigo (Sogni e delitti, Match point, fino a risalire al più datato Crimini e misfatti) e in questo caso Allen sente di voler ripercorrere la stessa strada.
Il film è costruito intorno alla figura di Abe Lucas, professore di filosofia appena trasferito; questo personaggio ricorda, per l’instabilità emotiva, la Cate Blanchett protagonista di Blue Jasmine, tanto da sembrarne l’alter-ego maschile. Abe è completamente privo di qualsiasi slancio vitale, costantemente attaccato alla bottiglia (tanto che questa pare essere inesauribile), sconsolatamente ed irrimediabilmente solo. Nonostante il successo che ha avuto e che continua ad avere con le donne, per lui il sesso è ormai solo un diversivo, un tempo utile a distrarlo dallo sfondo cupo nel quale qualsiasi gioia non può che annegare, ma divenuto ormai uno sfogo inadeguato e perciò senza senso. I suoi risultati accademici invece gli consentono al massimo di poter puntare ad una cattedra (seppur prestigiosa), con lo scopo di utilizzare lo spazio che si è ritagliato come teatro per i suoi messaggi nichilistici e disperati. Incapace di intravedere uno spiraglio di speranza, Abe sembra però aver diagnosticato perfettamente l’origine dei suoi mali, sintetizzata nell’esplicita e definitiva affermazione: “C’è differenza tra la vita vera e un mare di stronzate filosofiche.”



Quindi che fare? Se la sua brillante mente lo relega in un nulla atono e smorto, forse è tempo di trovare una soluzione nei fatti. La possibilità di ridare forma alla sua vita gliela offre il caso (elemento molto usato da Allen come motore dell’azione nei suoi film): origliando la conversazione che ha luogo alle sue spalle Abe viene a conoscenza della disgraziata condizione familiare nella quale versa una madre sull’orlo della separazione, penalizzata da un giudice di parte e quindi bisognosa di aiuto. La situazione viene vista, pretestuosamente, come l’opportunità di controbilanciare i mali del mondo, ma l’omicidio di un giudice inaffidabile e disonesto rappresenta in realtà la svolta personale che stava cercando, lo spunto per poter ricominciare.
Ad omicidio compiuto (non si tratta di un vero e proprio spoiler: l’omicidio avviene circa a metà film…) Abe appare rilassato, disteso, rinato. La forma che l’episodio gli ha conferito e i connotati che ora lo caratterizzano, non sembrano essere soltanto quelli di un assassino, bensì quelli di colui che ha toccato con mano cosa sia realmente la pratica. L’omicidio, per quanto spregevole, possiede infatti una tangibilità che le parole, che abitualmente scorrono sotto la sua penna, non possono e non potranno mai avere.
La sua vita non è più quella di qualche settimana prima, quando giocava alla roulette russa disinteressato alle conseguenze di un eventuale sparo, ma comincia ad essere solida e concreta, tanto da ritornare ad avere un significato, una direzione e un senso: torna infatti ad essere ineluttabilmente e terribilmente soggetta alle conseguenze. Ora Abe non solo non vuole più morire, ma addirittura la morte altrui non lo tange affatto: la sua vita è diventata un definitivo aut-aut: una sorta di o me o loro!. Questo cambio di forma rappresenta il vero turning point del film che, dall’essere la rappresentazione frammentaria di una vita in pezzi, diventa la cronaca di un concreto e irrazionale delirio.
I brandelli di cui si compone il personaggio di Abe si radunano attorno ad un omicidio premeditato, per poi disperdersi a causa delle conseguenze da esso stesso innescate. L’irrazionalità che lo anima è tanto sottile da sconfinare nella lucidità più sinistra e istintiva, frutto forse di una repressione vitale che l’ha fatta divampare come benzina al calore della prima scintilla di vita che passava di là. In debito di fatti e di avvenimenti compiuti, Abe si sente di poter recuperare solo attraverso un gesto eclatante che contrasti o che avvalli le teorie filosofiche che fino a quel punto occupavano e dominavano le sue giornate (“Il fare conta!”, esclama infatti soddisfatto).



Il film di sicuro non è tra i migliori di Woody Allen, nemmeno di quelli dell’ultimo periodo, manca infatti la fantasia di Midnight in Paris, la dirompenza schietta, diretta e definitiva di Basta che funzioni e la raffinata e densa complessità di Blue Jasmine. Rimane comunque un film piacevole che gravita attorno ad un Phoenix in forma (non come in The master o in Her, ma pur sempre in grado di strutturare personaggi credibilissimi) e ad una misurata e graziosa Emma Stone (anche lei brava anche se distante, per esempio, dalla sua performance in Birdman).

Woody Allen sembra affermare ancora una volta che la causa dei nostri mali, talvolta, siamo noi stessi, evidentemente incapaci di fronteggiare una realtà tutt’altro che perfetta, e lo fa senza azzardare un giudizio morale, ma anzi, come in Blue Jasmine, riuscendo a conservare un sentimento di pena nei confronti delle disgrazie del suo protagonista, pena che però non diventa mai tenerezza o compassione, ma distaccato fatalismo. L’ironia tipica di Allen negli ultimi suoi film risulta meno presente del solito e, invece che esprimersi nella forma diretta e classica della battuta, è inserita nell’impalcatura stessa della storia, tanto da diventarne, forse, la vera protagonista, sotto le spoglie enigmatiche e nascoste di un destino indifferente e di un fato maligno e beffardo.

Voto 6/7
G.P.

Inside Out - Recensione



Regia: Pete Docter

Trama

Riley è una bambina di 11 anni, serena e felice. Il suo mondo viene però sconvolto dal trasloco che è costretta a intraprendere e che dal Minnesota la conduce fino a San Francisco. Le cinque emozioni principali che abitano in lei, Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, cominciano a smuoversi: Disgusto sembra non gradire la novità, Paura continua ininterrottamente a redigere elenchi di possibili catastrofi imminenti, Rabbia stenta a trattenersi e Tristezza è come al solito nell’apatia più totale; solo Gioia cerca di tenerli a bada regalando loro la speranza che il cambiamento possa rivelarsi favorevole per Riley. In uno sfortunato incidente però Gioia e Tristezza vengono scaraventate fuori dalla torre di controllo nella quale risiedono, fino ad trovarsi nel bel mezzo dei ricordi più disparati della bambina. Le restanti emozioni non sono però in grado di conferire alla piccola la serenità necessaria e così la ragazzina, in un moto rabbioso, decide di fare ritorno nel Minnesota da sola. Il pericolo più grosso per lei è però rappresentato dalla possibilità di vedere distrutti i propri capisaldi esistenziali, incarnati della isole della personalità, rischiando così di cadere nell’apatia più irrimediabile e totale. Gioia e Tristezza cercheranno quindi di bilanciarsi a vicenda per fare ritorno alla zona di comando e per cercare di salvare il futuro della ragazzina.  

Recensione

Come provare a descrivere gli stati d’animo che indirizzano le nostre azioni? Come riuscire a rendere la complessità di quel magma indecifrabile, multicolore e multiforme che agita e smuove le nostre decisioni e le nostre scelte? È complicato, non c’è dubbio. Ma da sempre attraverso le storie per bambini (e di questo la Pixar ne sa qualcosa), la natura complessa della realtà può essere accolta e filtrata attraverso uno sguardo innocente e curioso, per poter poi essere restituita al pubblico dei più piccoli e non solo. Quando però il tema trattato risulta ostico anche ai più adulti (poiché il mondo delle emozioni è il meno razionalizzabile e il più complesso che ci sia) ecco che allora il mezzo della favola si fa universale, rendendo accessibile a chiunque anche il discorso più complesso, colorandolo di risvolti maturi e portandolo così a compimento in una fiaba che riesce a semplificare senza alterare l’essenza del messaggio.



È così che le 5 emozioni dominanti – Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto – si trovano a scomporre (e quindi a formare) l’universo emotivo della piccola Riley, generando, attraverso la loro interazione, le sfumature psicologiche che ne determinano il comportamento.
Davanti agli occhi dello spettatore si spalancano così le porte di un mondo coloratissimo, sospeso sul buio dei ricordi dimenticati, un universo a picco sull’oblio, in costante equilibrio sul vuoto. E così Gioia e Tristezza, dopo essersi smarrite lasciando il comando alle restanti emozioni (situazione che offrirà degli spunti comici esilaranti), dovranno cercare di fare ritorno alla torre di controllo, in un viaggio che le vede contendersi l’anima in tumulto della piccola Riley, alle prese con un trasloco mal digerito e con quegli 11 anni che sanno tanto di cambiamento. Il tutto però stando sempre bene attente a non guardare in basso per non finire (letteralmente) nel dimenticatoio.
Indissolubilmente intrecciate, le due facce della stessa medaglia emotiva, dovranno cercare di andare a braccetto se vorranno salvare il futuro della piccola dall’apatia e dal pericolo che possa non provare più niente. Attraverso la scoperta della funzione catartica della tristezza e del pianto i 5 sentimenti troveranno un loro bilanciamento che permetterà a Riley di poter sopravvivere ad un momento buio come un ricordo offuscato, immergendosi in un futuro pieno di gioie, caratterizzato dall’istinto per l’avventura e dal gusto per la scoperta. Una scoperta in grado di accendere una ritrovata fiducia nella vita, che diventa appassionato slancio verso il domani…e pazienza se sulla consolle gestita dalle nostre emozioni comparirà l’incomprensibile termine “pubertà”, tanto, come commenta la voce fuori campo, “a dodici anni cosa mai potrebbe succedere?!” (sigh!).



Ancora una volta la Pixar fonde in maniera impeccabile due universi cromaticamente differenti – quello luminoso della stabilità, della serenità e della coscienza e quello tetro ed ostile del cambiamento, della malinconia e dell’oblio – che si uniranno fino a rivelarne la complementarietà di fondo a fronte di un’apparente contrapposizione. Come è tipico dei migliori film d’animazione, il tutto viene fatto in maniera tanto impeccabile da rendere invisibile agli occhi del pubblico il punto di raccordo tra questi due mondi, consentendo quindi allo spettatore di godere della splendida sfumatura che ne deriva.

Altra fusione incredibilmente riuscita è (per l’appunto) quella tra il dentro e il fuori, tra l’interno e l’esterno, tanto perfetta da riuscire ad illuminare un discorso che avrebbe potuto incappare nel didascalismo o nella pedanteria. Tutto questo senza entrare nel mondo della razionalità più puntigliosa o della spiegazione macchinosa, ma ricorrendo ad una descrizione della mente umana vista come un laboratorio in cui vengono miscelati differenti elementi, tanto differenti tra loro da rendere imprevedibile il risultato. D’altronde, come si dice in questi casi, la scienza può essere vista come una forma d’arte e, a quanto pare, talvolta si può fare dell’arte perfino prendendo la scienza come spunto.

Voto 8
G.P.