domenica 16 ottobre 2016

Irrational Man - Recensione



Regia: Woody Allen
Interpreti: Joaquin Phoenix, Emma Stone, Parker Posey, Jamie Blackley.

Trama

Il Professore di filosofia Abe Lucas si trasferisce nell’università di Newark. Sul suo conto ci sono un’infinità di dicerie, volte a giustificarne il carattere schivo e malinconico: stando alla più cruda, il suo migliore amico sarebbe morto in guerra (decapitato) e questo lo avrebbe gettato in una profonda depressione. Le sue lezioni riflettono il suo stato d’animo disincantato e dolente e questo suo atteggiamento attrae molto Jill, una sua brillante studentessa, tanto che tra i due, nonostante lei sia sentimentalmente impegnata, nasce qualcosa di più di un’amicizia. Abe nel frattempo non riesce a rispondere alle avance esplicite della professoressa Rita Richards, proprio a causa del suo stato psicologico. Accidentalmente Abe e Jill assistono ad una conversazione che restituisce di colpo al professore la voglia di vivere: in una tavola calda una donna si lamenta del mancato affidamento dei figli in seguito ad un divorzio, recriminando contro il giudice incaricato del processo, che avrebbe fama di disonestà e scorrettezza. Così Abe, di punto in bianco, decide di farlo fuori. Per giustificare quest’atto, estremo e sconvolgente, Abe ricorre persino alle teorie filosofiche da lui ben conosciute, ma, ad omicidio compiuto, l’autoassoluzione più convincente gli viene offerta dallo stato di vitalità che prova al solo pensiero di commettere il delitto, e questa forse gli appare la giustificazione più convincente…

Recensione



Si sa, Woody Allen non è solito cambiare stile e neppure argomenti. Da decenni le sue pellicole sono incentrate su temi cupi e amari, che riflettono sull’insensatezza della vita, sulla sua casualità e sulla solitudine inesorabile a cui la “condizione di esistenti” conduce. Negli ultimi anni, come è stato spesso scritto e detto, si è dedicato al tema del delitto senza castigo (Sogni e delitti, Match point, fino a risalire al più datato Crimini e misfatti) e in questo caso Allen sente di voler ripercorrere la stessa strada.
Il film è costruito intorno alla figura di Abe Lucas, professore di filosofia appena trasferito; questo personaggio ricorda, per l’instabilità emotiva, la Cate Blanchett protagonista di Blue Jasmine, tanto da sembrarne l’alter-ego maschile. Abe è completamente privo di qualsiasi slancio vitale, costantemente attaccato alla bottiglia (tanto che questa pare essere inesauribile), sconsolatamente ed irrimediabilmente solo. Nonostante il successo che ha avuto e che continua ad avere con le donne, per lui il sesso è ormai solo un diversivo, un tempo utile a distrarlo dallo sfondo cupo nel quale qualsiasi gioia non può che annegare, ma divenuto ormai uno sfogo inadeguato e perciò senza senso. I suoi risultati accademici invece gli consentono al massimo di poter puntare ad una cattedra (seppur prestigiosa), con lo scopo di utilizzare lo spazio che si è ritagliato come teatro per i suoi messaggi nichilistici e disperati. Incapace di intravedere uno spiraglio di speranza, Abe sembra però aver diagnosticato perfettamente l’origine dei suoi mali, sintetizzata nell’esplicita e definitiva affermazione: “C’è differenza tra la vita vera e un mare di stronzate filosofiche.”



Quindi che fare? Se la sua brillante mente lo relega in un nulla atono e smorto, forse è tempo di trovare una soluzione nei fatti. La possibilità di ridare forma alla sua vita gliela offre il caso (elemento molto usato da Allen come motore dell’azione nei suoi film): origliando la conversazione che ha luogo alle sue spalle Abe viene a conoscenza della disgraziata condizione familiare nella quale versa una madre sull’orlo della separazione, penalizzata da un giudice di parte e quindi bisognosa di aiuto. La situazione viene vista, pretestuosamente, come l’opportunità di controbilanciare i mali del mondo, ma l’omicidio di un giudice inaffidabile e disonesto rappresenta in realtà la svolta personale che stava cercando, lo spunto per poter ricominciare.
Ad omicidio compiuto (non si tratta di un vero e proprio spoiler: l’omicidio avviene circa a metà film…) Abe appare rilassato, disteso, rinato. La forma che l’episodio gli ha conferito e i connotati che ora lo caratterizzano, non sembrano essere soltanto quelli di un assassino, bensì quelli di colui che ha toccato con mano cosa sia realmente la pratica. L’omicidio, per quanto spregevole, possiede infatti una tangibilità che le parole, che abitualmente scorrono sotto la sua penna, non possono e non potranno mai avere.
La sua vita non è più quella di qualche settimana prima, quando giocava alla roulette russa disinteressato alle conseguenze di un eventuale sparo, ma comincia ad essere solida e concreta, tanto da ritornare ad avere un significato, una direzione e un senso: torna infatti ad essere ineluttabilmente e terribilmente soggetta alle conseguenze. Ora Abe non solo non vuole più morire, ma addirittura la morte altrui non lo tange affatto: la sua vita è diventata un definitivo aut-aut: una sorta di o me o loro!. Questo cambio di forma rappresenta il vero turning point del film che, dall’essere la rappresentazione frammentaria di una vita in pezzi, diventa la cronaca di un concreto e irrazionale delirio.
I brandelli di cui si compone il personaggio di Abe si radunano attorno ad un omicidio premeditato, per poi disperdersi a causa delle conseguenze da esso stesso innescate. L’irrazionalità che lo anima è tanto sottile da sconfinare nella lucidità più sinistra e istintiva, frutto forse di una repressione vitale che l’ha fatta divampare come benzina al calore della prima scintilla di vita che passava di là. In debito di fatti e di avvenimenti compiuti, Abe si sente di poter recuperare solo attraverso un gesto eclatante che contrasti o che avvalli le teorie filosofiche che fino a quel punto occupavano e dominavano le sue giornate (“Il fare conta!”, esclama infatti soddisfatto).



Il film di sicuro non è tra i migliori di Woody Allen, nemmeno di quelli dell’ultimo periodo, manca infatti la fantasia di Midnight in Paris, la dirompenza schietta, diretta e definitiva di Basta che funzioni e la raffinata e densa complessità di Blue Jasmine. Rimane comunque un film piacevole che gravita attorno ad un Phoenix in forma (non come in The master o in Her, ma pur sempre in grado di strutturare personaggi credibilissimi) e ad una misurata e graziosa Emma Stone (anche lei brava anche se distante, per esempio, dalla sua performance in Birdman).

Woody Allen sembra affermare ancora una volta che la causa dei nostri mali, talvolta, siamo noi stessi, evidentemente incapaci di fronteggiare una realtà tutt’altro che perfetta, e lo fa senza azzardare un giudizio morale, ma anzi, come in Blue Jasmine, riuscendo a conservare un sentimento di pena nei confronti delle disgrazie del suo protagonista, pena che però non diventa mai tenerezza o compassione, ma distaccato fatalismo. L’ironia tipica di Allen negli ultimi suoi film risulta meno presente del solito e, invece che esprimersi nella forma diretta e classica della battuta, è inserita nell’impalcatura stessa della storia, tanto da diventarne, forse, la vera protagonista, sotto le spoglie enigmatiche e nascoste di un destino indifferente e di un fato maligno e beffardo.

Voto 6/7
G.P.

Inside Out - Recensione



Regia: Pete Docter

Trama

Riley è una bambina di 11 anni, serena e felice. Il suo mondo viene però sconvolto dal trasloco che è costretta a intraprendere e che dal Minnesota la conduce fino a San Francisco. Le cinque emozioni principali che abitano in lei, Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto, cominciano a smuoversi: Disgusto sembra non gradire la novità, Paura continua ininterrottamente a redigere elenchi di possibili catastrofi imminenti, Rabbia stenta a trattenersi e Tristezza è come al solito nell’apatia più totale; solo Gioia cerca di tenerli a bada regalando loro la speranza che il cambiamento possa rivelarsi favorevole per Riley. In uno sfortunato incidente però Gioia e Tristezza vengono scaraventate fuori dalla torre di controllo nella quale risiedono, fino ad trovarsi nel bel mezzo dei ricordi più disparati della bambina. Le restanti emozioni non sono però in grado di conferire alla piccola la serenità necessaria e così la ragazzina, in un moto rabbioso, decide di fare ritorno nel Minnesota da sola. Il pericolo più grosso per lei è però rappresentato dalla possibilità di vedere distrutti i propri capisaldi esistenziali, incarnati della isole della personalità, rischiando così di cadere nell’apatia più irrimediabile e totale. Gioia e Tristezza cercheranno quindi di bilanciarsi a vicenda per fare ritorno alla zona di comando e per cercare di salvare il futuro della ragazzina.  

Recensione

Come provare a descrivere gli stati d’animo che indirizzano le nostre azioni? Come riuscire a rendere la complessità di quel magma indecifrabile, multicolore e multiforme che agita e smuove le nostre decisioni e le nostre scelte? È complicato, non c’è dubbio. Ma da sempre attraverso le storie per bambini (e di questo la Pixar ne sa qualcosa), la natura complessa della realtà può essere accolta e filtrata attraverso uno sguardo innocente e curioso, per poter poi essere restituita al pubblico dei più piccoli e non solo. Quando però il tema trattato risulta ostico anche ai più adulti (poiché il mondo delle emozioni è il meno razionalizzabile e il più complesso che ci sia) ecco che allora il mezzo della favola si fa universale, rendendo accessibile a chiunque anche il discorso più complesso, colorandolo di risvolti maturi e portandolo così a compimento in una fiaba che riesce a semplificare senza alterare l’essenza del messaggio.



È così che le 5 emozioni dominanti – Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto – si trovano a scomporre (e quindi a formare) l’universo emotivo della piccola Riley, generando, attraverso la loro interazione, le sfumature psicologiche che ne determinano il comportamento.
Davanti agli occhi dello spettatore si spalancano così le porte di un mondo coloratissimo, sospeso sul buio dei ricordi dimenticati, un universo a picco sull’oblio, in costante equilibrio sul vuoto. E così Gioia e Tristezza, dopo essersi smarrite lasciando il comando alle restanti emozioni (situazione che offrirà degli spunti comici esilaranti), dovranno cercare di fare ritorno alla torre di controllo, in un viaggio che le vede contendersi l’anima in tumulto della piccola Riley, alle prese con un trasloco mal digerito e con quegli 11 anni che sanno tanto di cambiamento. Il tutto però stando sempre bene attente a non guardare in basso per non finire (letteralmente) nel dimenticatoio.
Indissolubilmente intrecciate, le due facce della stessa medaglia emotiva, dovranno cercare di andare a braccetto se vorranno salvare il futuro della piccola dall’apatia e dal pericolo che possa non provare più niente. Attraverso la scoperta della funzione catartica della tristezza e del pianto i 5 sentimenti troveranno un loro bilanciamento che permetterà a Riley di poter sopravvivere ad un momento buio come un ricordo offuscato, immergendosi in un futuro pieno di gioie, caratterizzato dall’istinto per l’avventura e dal gusto per la scoperta. Una scoperta in grado di accendere una ritrovata fiducia nella vita, che diventa appassionato slancio verso il domani…e pazienza se sulla consolle gestita dalle nostre emozioni comparirà l’incomprensibile termine “pubertà”, tanto, come commenta la voce fuori campo, “a dodici anni cosa mai potrebbe succedere?!” (sigh!).



Ancora una volta la Pixar fonde in maniera impeccabile due universi cromaticamente differenti – quello luminoso della stabilità, della serenità e della coscienza e quello tetro ed ostile del cambiamento, della malinconia e dell’oblio – che si uniranno fino a rivelarne la complementarietà di fondo a fronte di un’apparente contrapposizione. Come è tipico dei migliori film d’animazione, il tutto viene fatto in maniera tanto impeccabile da rendere invisibile agli occhi del pubblico il punto di raccordo tra questi due mondi, consentendo quindi allo spettatore di godere della splendida sfumatura che ne deriva.

Altra fusione incredibilmente riuscita è (per l’appunto) quella tra il dentro e il fuori, tra l’interno e l’esterno, tanto perfetta da riuscire ad illuminare un discorso che avrebbe potuto incappare nel didascalismo o nella pedanteria. Tutto questo senza entrare nel mondo della razionalità più puntigliosa o della spiegazione macchinosa, ma ricorrendo ad una descrizione della mente umana vista come un laboratorio in cui vengono miscelati differenti elementi, tanto differenti tra loro da rendere imprevedibile il risultato. D’altronde, come si dice in questi casi, la scienza può essere vista come una forma d’arte e, a quanto pare, talvolta si può fare dell’arte perfino prendendo la scienza come spunto.

Voto 8
G.P.

lunedì 23 giugno 2014

Maps To The Stars - Recensione


Regia David Cronenberg
Attori Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Sarah Gardon, Robert Pattinson, Evan Bird

Trama

Nella Hollywood delle stelle del cinema si incrociano diverse persone: Havana Segrand, attrice decaduta che cerca di raddrizzare la propria carriera provando ad ottenere il ruolo interpretato anni prima dalla madre, deceduta in un incendio; Agatha Weiss, ragazza abbandonata dai genitori e segnata dalle cicatrici di un incendio che la traumatizzò da piccola; e i componenti della famiglia Weiss, il padre Stafford, affermato psicologo (che ha in cura tra i suoi pazienti Havana), la madre Sarah e il figlio adolescente Benjie, acclamata star di un telefilm di successo. Havana e Benjie cominciano ad avere strane visioni riguardo il loro passato, mentre Agatha, tornata a Los Angeles per cercare la sua famiglia, ottiene un lavoro come assistente di Havana, e durante il soggiorno instaura un rapporto con Jerome, un autista di limousine che sogna di sfondare nel mondo del cinema.

Recensione

Il film di Cronenberg spicca per atmosfere fredde e sinistre, intrise di momenti horror con sfumature psicologiche e soprannaturali. La Los Angeles delle star, a dispetto dell’apparenza patinata ed elegante, è un luogo popolato di segreti e macchiato dalla dannazione, una colpa dai connotati ancestrali, una maledizione tramandata di padre in figlio. Tutto ciò è marchiato col fuoco, dall’incendio che sfigurò la protagonista a quello che uccise la madre di Havana. La libertà tanto aspirata (lasciata alla poesia che la Agatha e Benjie leggono in continuazione) sembra lontana, forse possibile solo attraverso un gesto estremo, e la morte sembra il modo migliore per nascondere la polvere sotto il tappeto. Ma dal tappeto della psiche dei personaggi emerge tutto ciò che è nascosto, e le stelle di Hollywood non possono che annegare nel loro cielo oscuro e disperato.
Cronenberg si affida al colpo di scena e alle atmosfere distorte, al silenzio straniante e a quel senso di imminente pericolo e di calma apparente che aveva già caratterizzato il suo precedente lavoro, Cosmopolis (film sicuramente più riuscito). Ma se in quest’ultimo il discorso si faceva filosofico, apocalittico e universale - tanto da trovare una chiave di lettura tesa ad analizzare la crisi economica in raccordo con quella individuale - nel suo nuovo film il dramma che colpisce i protagonisti sembra invece toccare la sola famiglia Weiss, senza quindi riuscire ad avere l’impatto adeguato e il respiro giusto per essere qualcosa di più di una sgangheratissima soap: una storia che alterna il dramma della vita annoiata dei protagonisti a momenti di terrore dischiusi dalla mente contorta dei personaggi.
Il risultato è di sicuro impatto emotivo, ma viene a mancare proprio nel suo essere straniante fino in fondo, lasciando quindi soltanto un palpabile senso di confusione, quasi che la storia non fosse altro che un pretesto per mettere in scena momenti shoccanti che, senza il supporto di una chiarezza sostanziale del discorso, deragliano nel compiacimento e nella gratuità. Gli improvvisi momenti di suspance sono scollegati da tutto il resto e sembrano voler nascondere una mancanza di idee, come se il film si reggesse sulla speranza che il momento “forte” possa distrarre lo spettatore dall’inconsistenza di alcune sue parti. Alcuni dialoghi sono buoni, surreali, crudi ed enigmatici al tempo stesso, ma vengono talvolta rovinati da un simbolismo semplificato (la scena degli anelli, per esempio) che manifesta tutta la debolezza di un film che ha nell’atmosfera una buona costante, su cui però la storia zoppica fino a stramazzare al suolo, senza mai sembrare in grado di potersi reggere veramente in piedi. Il finale è immerso nella spessa nebbia di fitto mistero che caratterizza la pellicola, ma nonostante la pulizia stilizzata non riesce a districare la contorta matassa di momenti sconvolgenti che compongono il film, riducendo così l’intera pellicola ad un esperimento elaborato, intricato e complesso come un labirinto, all’interno del quale però sembra che ad essersi smarrito sia lo stesso Cronenberg.

Voto 5
G.P.

mercoledì 30 aprile 2014

Lei - Recensione


Regia Spike Jonze
Attori Joaquin Phoenix. Amy Adams, Olivia Wilde, Rooney Mara, Chris Pratt.

Trama

In una Los Angeles futuristica, Theodor Twombly conduce una vita solitaria dopo la rottura con la moglie, lavorando come autore di lettere d’amore per conto di altri. Attanagliato dalla solitudine decide di comprare un dispositivo informatico, un OS1, che gli tenga compagnia. Questo sistema operativo è impostato dallo stesso Ted, che decide di chiamarlo Samantha. La relazione con Samantha, seppur solo vocale, diventa sempre più intensa e solida col passare del tempo, tanto che i due raggiungono un’intimità tale da dichiararsi reciprocamente, diventando fidanzati. Le dinamiche del rapporto somigliano in modo inquietante a quelle di una coppia tradizionale, ma come nelle coppie tradizionali il rapporto rischia di incrinarsi anche a causa dell’evidente differenza che intercorre tra i due partner.

Recensione

La solitudine è davvero una brutta bestia, un ostacolo che pone chiunque ad un confronto serrato con se stessi, ma il futuro mostrato da questo splendido film sembra offrire una scappatoia a questo problema. E se un’unità informatica sostituisse uno dei due partner, instaurando con un essere umano una relazione con le stesse dinamiche di una relazione sentimentale tradizionale? Gli organismi artificiali potranno in futuro possedere sentimenti, e se sì, li elaboreranno come facciamo noi? In definitiva: esiste davvero una differenza tra noi e loro? Il film non risolve la matassa con una risposta lineare e netta, ma lascia permanere degli interrogativi pesanti, e solo alla lunga sembra lasciar intravedere una soluzione. Si tratta di un film che supera la dicotomia amore reale / amore virtuale, interrogando il protagonista e lo spettatore a proposito della propria natura in una riflessione sui rapporti umani, prima ancora che su quelli tra uomo e macchina. Una soluzione che giunge al termine di un percorso introspettivo che pone il protagonista davanti all’impossibilità pratica di una relazione interfacciata con un sistema operativo, nonché all’incapacità di relazionarsi con gli altri e di affrontare lo spettro del rifiuto. Theodor non riesce a mettere in pratica l’arte del rapporto che sembra invece essergli congegnale, vista la profonda sensibilità manifestata nella professione che svolge, riducendosi così ad essere un semplice portaborse sentimentale. Con l’arrivo di Samantha tutto cambia, Ted sembra sbocciare, provando timidamente ad uscire dal suo guscio. La loro relazione procede in fretta, e nonostante l’iniziale titubanza anche il sesso è contemplato, nonostante il non piccolo inconveniente dell’assenza fisica di Samantha, supplito però da un’intensità emotiva che prende carne, forma e sostanza in maniera così dirompente da far dimenticare l’assenza di corporeità. La scena dell’amplesso in particolare è un vero capolavoro: un attimo intensissimo in cui, nell’impossibilità di consumare il rapporto in carne ed ossa, la complicità si concentra tutta nella sola sintonia tra le due voci, che deborda facendo esclamare a Samantha: “Mi fai sentire che ho una pelle. Non appena il rapporto si è consumato, in una scena che rimane a schermo totalmente oscurato, la città emerge inaspettata dal buio, come una sterminata vastità di luci artificiali (appunto) che illuminano la notte solitaria di Theodor. Con il rapporto sessuale sembra eliminato il bisogno di una fisicità, la relazione sembra essersi svincolata dalla condanna di essere solo un rapporto platonico e la fisicità diventa quindi un intoppo al conseguimento di un rapporto perfetto, quasi fosse proprio questo l’ostacolo da superare  per raggiungere l’estasi più completa 
Il rapporto di questa coppia sui generis con le altre coppie presenti nel film sembra quindi sostanzialmente simile, ma si ha quasi l’impressione che la cascata sia pronta a sorprendere da un momento all’altro Ted e Samantha, nonostante il fiume sembri essere calmo e navigabile. Si ha la sensazione straniante che la felicità del protagonista troverà di lì a poco un intoppo fatale che ne sgonfierà l’entusiasmo, costringendolo a rivalutare la situazione e a razionalizzare per quanto possibile i suoi sentimenti alla luce delle scoperte cui si troverà davanti durante il corso del film. Questo elemento però non è del tutto differente da quello che caratterizza le coppie normali, che possono in ogni momento andare in contro alla fine della relazione: quindi la fragilità del rapporto diventa un elemento di ulteriore comunanza tra un legame di questo tipo ed uno tradizionale, poiché è sempre la variabile umana a dettare i tempi a seconda della natura del rapporto e dei partner. Beffardamente si può notare come il protagonista abbia deciso di instaurare una relazione di questo tipo proprio per paura del rifiuto, ma anche come le dinamiche alle quali va incontro siano proprio quelle che temeva di dover affrontare, in una storia che  sottolinea in maniera amara come qualsiasi rapporto obblighi ad un’autoanalisi continua nonché ad una costante riscoperta delle proprie incertezze e delle proprie paure, che non può essere in alcun modo rimandata 
C’è poi da sottolineare la performance strepitosa di Joaquin Phoenix, che restituisce al suo personaggio tutte le sfumature di un animo tormentato, frustrato sensibilissimo, conferendogli le caratteristiche tipiche dell’omino con i baffetti, anonimo e solitario, con uno spessore interiore ed una complessità fuori dal comune. I suoi dubbi, i suoi tormenti e i suoi entusiasmi contenuti sono delineati alla perfezione da questo attore che da qualche tempo a questa parte non sbaglia un film, dimostrando di saper convogliare i turbamenti del suo tormentato animo da star incompresa, plasmandoli fino a farli diventare la sostanza delle sue interpretazioni. Va menzionata anche la bravissima Amy Adams che interpreta il personaggio di Amy, collega e amica di Ted. La Adams riesce a comunicare tantissimo con il solo magnetismo dello sguardo in un’interpretazione contenuta e moderata nella quale, nonostante appaia sempre struccata un po’ sbattuta, se possibile arriva a livelli di bellezza e di veridicità difficilmente raggiunti in precedenza.    
La regia è originale, estremamente ispirata e caratterizzata dall’utilizzo di un tono malinconico e trasognato, che non sconfina mai in uno stile incolore o freddo. Spike Jonze (anche sceneggiatore, nonché fresco vincitore dell’Oscar per la migliore sceneggiatura originale) riesce inoltre a portare avanti un discorso estremamente complesso, che avrebbe potuto essere banalizzato se fosse stato ridotto al rapporto uomo-macchina, discorso che invece viene affrontato in maniera estremamente matura dal registache ne amplia gli orizzonti ed alza il tiro a favore di un’analisi antropologia profondissima, che va a toccare in maniera dolorosa e poetica il tema della solitudine e del disadattamento del singolo.  
In definitiva si tratta di un film assolutamente da vedere, come quest’anno se ne sono visti pochi. Consigliatissimo. 

Voto 8/9
G.P.

domenica 2 marzo 2014

Smetto quando voglio - Recensione


Regia Sydney Sibilia

Attori Edoardo Leo, Valeria Solarino, Valerio Aprea, Lorenzo Lavia, Stefano Fresi,
Paolo Calabresi, Pietro Sermonti, Libero De Rienzo, Neri Marcorè

Trama

Pietro è un ricercatore universitario specializzato in neurobiologia, vive con la compagna Giulia, e a causa della crisi fatica a sbarcare il lunario. Umiliato da una condizione che non lo valorizza e che non gli garantisce sicurezza economica, decide di impiegare le sue conoscenze per produrre una nuovissima droga, non ancora vietata in Italia e quindi perfettamente legale. Per realizzare l’impresa si circonda di un manipolo di accademici ridotti nelle sue stesse condizioni: i latinisti Mattia e Giorgio, il chimico Alberto, l’antropologo Andrea, l’economista Bartolomeo, e l’archeologo Arturo. Il successo nel loro nuovo business li esporrà all’attenzione del Murena, boss della droga romana, e a quella delle forze dell’ordine che, dopo aver inserito la loro creazione nella lista delle sostanze illecite, cominciano a seguire con sempre maggiore interesse i loro traffici.

Recensione

Nei tempi di crisi qualsiasi discorso etico finisce col passare in secondo piano di fronte alla prospettiva di una vita che non garantisce la sopravvivenza, così 7 ricercatori universitari si vedono costretti a reinventarsi, riciclandosi come produttori e spacciatori di droga. Le potenzialità comiche della pellicola risultano evidenti, ma vengono sfruttate solo parzialmente. Il film stenta infatti a decollare, soprattutto per un difetto strutturale nella sceneggiatura, che vede la storia arrivare al dunque solo attorno alla mezz’ora del film, addormentando così il primo terzo della pellicola. Questa prima parte si limita a mostrare la vita frustrante del protagonista, il quale non vede affatto tradursi in successo professionale, e quindi economico, gli sforzi fatti fino a quel momento, e nemmeno il suo talento indiscusso sembra essere riconosciuto dai superiori, che lo snobbano proprio perché non sembrano essere in grado di comprenderlo. I personaggi che gravitano attorno a questa “astuta mente criminale” (e dai quali dipende gran parte della verve comica della pellicola) sono anch’essi dei piccoli geni nei rispettivi ambienti accademici, costretti ad accontentarsi di un lavoro mal retribuito e del tutto scollegato dal proprio settore di competenza. Il successo della loro impresa, va di pari passo con un’impennata della pellicola, anche se questa non sembra essere del tutto ben gestita. La banda si troverà a fare i conti con il successo e con la conseguente ingordigia di alcuni suoi elementi, ed è proprio a questo punto della storia che la narrazione prende una piega non definita. Si notano infatti echi drammatici che rendono poco chiaro il tono di questa commedia dai dichiarati intenti comici, che finisce col tradurre questa mancata chiarezza in situazioni confuse ed involontariamente grottesche. Il finale recupera in leggerezza, traducendo l’intera storia in una stramba parentesi in cui degli incorreggibili sfigati si impongono rocambolescamente all’interno di un mondo, quello della malavita, a loro totalmente sconosciuto, fino a venirne risputati, non prima di avere però gettato scompiglio nella struttura criminale contro la quale si sono involontariamente scontrati. È un film che parte da un buonissimo spunto, caratteristica non rara nel cinema italiano degli ultimi anni (un esempio può essere rappresentato dalla pellicola Immaturi di Genovese), ma che ha nella stesura e nel mancato sviluppo di alcune sue potenzialità dei difetti evidenti. Risulta però un discreto tentativo della commedia italiana, fino a poco tempo fa identificata quasi totalmente con il “fenomeno” dei cinepanettoni, di cimentarsi con la realtà contemporanea e con la crisi economica attuale, tema che ha dato spunto a non pochi personaggi del nostro cinema, come Checco Zalone in Sole a catinelle e Carlo Verdone in Posti in piedi in paradiso. Ne risulta un prodotto tutto sommato godibile che non offre di certo proposte di risoluzione al problema (l’idea di base infatti è un evidente tentativo di raggirare il problema, proprio in mancanza di una soluzione),
ma che dà voce alla frustrazione che un momento storico come il nostro può generare, limitandosi a declinare una situazione sull’orlo del tragico in una chiave comica non marcatamente dissacrante (e quindi poco coraggiosa), ma a tratti divertente e leggera, pur con i limiti, e i relativi margini di miglioramento, che questo genere in Italia ancora manifesta.

Voto 5/6
G.P.

mercoledì 29 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street - Recensione


Regia: Martin Scorsese
Attori: Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Jean Dujardin

Trama

Jordan Belfort è un brocker di New York che, giovanissimo, decide di mettersi in proprio aprendo un’azienda con Donnie, suo vicino di casa, ed altri suoi conoscenti. Nel giro di poco tempo l’attività si espande a tal punto che Jordan, a soli 26 anni, si ritrova in possesso di una delle principali aziende in ascesa di tutta Wall Street, talmente grande da fargli guadagnare il soprannome di Wolfie. Con il successo cambia anche lo stile di vita di Jordan, il quale divorzia dalla prima moglie per sposarsi con l’amante, un’avvenente ragazza conosciuta poco prima. L’FBI comincia però ad indagare sulle sue attività, insospettita dalla sua fulminante ascesa. Inizia così una battaglia tra guardie e ladri tra il giovane uomo d’affari e il governo americano, che andrà di pari passo con il declino professionale e sentimentale di Jordan.

Recensione

Droga, sesso e Wall Street: questo potrebbe essere senza dubbio il sottotitolo dell’ultima pellicola diretta da Martin Scorsese, che questa volta si cimenta con una storia che parla di crimine e finanza. Il giovane rampante Jordan Belfort incarna l’arrivismo e la smania di potere tipica della gioventù americana nell’era reaganiana (e post-reaganiana) a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90. Il suo è un mondo popolato da bambini che non riconoscono le leggi degli adulti, e allora, divenuti abbastanza grandi, se ne fanno di proprie, non ponendosi limiti etici di alcun tipo. Il suo mentore lo aveva avvisato che per reggere in quel campo bisogna affidarsi a due elementi: la masturbazione e la cocaina. L’allievo supera di gran lunga il maestro, arrivando ad organizzare, una volta aperta la sua società, festini sexy in ufficio (con licenza di consumare rapporti sessuali) e a consumare una quantità di droga giornaliera “che stenderebbe tutta Manhattan e Queens per un mese”. Le droghe fungono quindi da energetici per far durare più a lungo il gioco e le donne sono una deliziosa decorazione, un optional a cui un edonista convinto non può rinunciare. Per una volta un film di Scorsese è stato vietato (ai minori di 14 anni) non per l’uso esplicito della violenza, ma per quello del sesso, che rappresenta una costante all’interno dell’intera pellicola. Viene infatti vissuto con la più totale assenza di coinvolgimento sentimentale, tanto da essere declassato a manifestazione esplicita e sboccata del proprio possesso e del proprio status gerarchico (concetto ben espresso nella scena che mostra la suddivisione in categorie estetiche delle prostitute che gravitano attorno all’azienda).
Il mestiere di questi nuovi businessman consiste nel truffare investitori ignoranti, per cominciare, passando poi a quelli più grossi, man mano l’attività si allarga. Non provano rimorso per quello che fanno, quasi fossero bambini alle prese con un pacchetto di caramelle appena rubato. Questo loro atteggiamento indolente non corre però il rischio di appiattire il film, poiché è proprio l’accumulo e la ripetizione di tali atti a creare le fondamenta del loro stile di vita, e quindi l’apatia dei personaggi, imbambolati di fronte al simbolo del dollaro, offre a Scorsese un spunto di analisi interessante. È una pellicola che ricorda Quei bravi ragazzi e Casinò, per come mette in mostra il mondo all’interno del quale si muovono i personaggi, ed il modo in cui essi svolgono le loro attività, osservando come queste non sembrino mai portare ad una forma di sazietà, rigenerandosi costantemente all’interno di un circolo vizioso che ha nell’eccesso l’obbiettivo ultimo di qualsiasi azione.
Lo stile di Scorsese è il solito: fulminante ed imprevedibile, dinamicissimo nello sviluppare le azioni e nel raccordarle tra loro. Si assiste a momenti di rara pulizia tecnica e registica (attraverso l’uso del ralenti, per esempio) ai quali il regista italoamericano ci ha abituati, come nella scena del lancio dell’orologio durante uno dei suoi comizi, o nei momenti in cui le droghe entrano in circolo, creando un punto di rottura secco con la realtà circostante. Utilissimo l’approccio confidenziale con cui il protagonista si rivolge al pubblico, spesso guardando anche in camera, in un esercizio meta cinematografico che Scorsese aveva già utilizzato in Quei bravi ragazzi. Un elemento in parte nuovo è però rappresentato dall’umorismo marcato, e talvolta demenziale, molto presente in questa pellicola, accentuato da un taglio registico che sottolinea ironicamente alcune situazioni, anche le più drammatiche. Questo espediente evidenzia il carattere dei personaggi, così da dare alle loro azioni dei connotati spiccatamente ludici che, accostate alla loro indole infantile, porta il film sui binari del grottesco.
Di Caprio in questo film dà sfogo agli eccessi che la sua indole di attore vulcanico gli permette di esprimere, diventando quasi mefistofelico in alcune sue espressioni (soprattutto in quelle in cui arringa i suoi dipendenti) e giungendo così a trovare il ruolo adatto in cui liberare i suoi isterismi (sempre da manuale, si intende) senza timore di risultare sopra le righe. Un carisma davvero poco comune il suo, che permette di dar vita ad un personaggio indomito e profondamente animalesco, incapace di cedere al pentimento o di rimuginare sul patrimonio dilapidato. Nei frangenti finali della pellicola Scorsese si limita a filmare la sua caduta repentina, concentrandosi sui momenti che l’hanno segnata, senza trarre conclusioni o azzardare giudizi di alcun genere.
Ci sono forse alcune lungaggini di troppo all’interno di scene che peraltro sarebbero risultate più incisive se sintetizzate, e risultano un po’ forzati alcuni espedienti che poco si confanno ad un film di questo genere (come per esempio alcune voci off che talvolta forzano la scena, inclinandola troppo sul versante comico), ma nel complesso le tre ore di film passano senza pesare, riuscendo a divertire lo spettatore.
Un film che, nonostante la vicenda raccontata, non si perde in sentimentalismi e non concede nulla all’emotività, come è nello stile del regista d’altronde, che preferisce da sempre dare vigore agli eventi, vivacità alle scene e contorni netti ai personaggi, piuttosto che scegliere una (comunque plausibilissima) chiave narrativa controllata ed un tono più intimo con cui mettere in scena la storia. Come sempre la musica ha notevole importanza nel suo cinema poiché permette di scandire le scene designandone spesso il tono, come fa per esempio la canzone Mrs. Robinson (nella versione rock dei Lemonheads), che sfuma la pellicola verso un finale beffardo per il protagonista. A tal proposito va menzionata anche la presenza della canzone Gloria di Tozzi, presente in una scena che mostra un “soggiorno forzato” del protagonista in territorio italiano.
Uno Scorsese che torna a trattare i temi legati al mondo del crimine, tanto cari al suo cinema, dopo l’incursione nel mondo della favola dickensiana di Hugo Cabret, suo penultimo film, e lo fa aggiungendo un tassello alla sua lunga galleria di personaggi raccontati finora, portandosi a casa 5 pesanti nomination nella corsa agli Oscar (miglior film, regia, attore protagonista per Leonardo Di Caprio, attore non protagonista per Jonah Hill e per la sceneggiatura non originale). Staremo a vedere se e in quali categorie questo film la spunterà.

Voto 8
G.P.

lunedì 20 gennaio 2014

Il Grande Match - Recensione


Regia Peter Segal
Attori Sylvester Stallone, Robert De Niro, Kim Basinger, Alan Arkin, Jon Bernthal, Kevin Hart

Trama

Henry “Razor” Sharp è un ex pugile che vive di rimpianti. Anche Billy “The Kid” McDonnen è un ex pugile, ora imprenditore nel campo delle automobili, dedito alla bella vita e al divertimento. La loro rivalità sportiva si ferma ai due incontri disputati in gioventù, terminati con una vittoria a testa. Pare invece che dietro l’odio che li accomuna (e dietro l’improvviso ritiro di Henry) ci siano motivi più profondi. Un giorno Dante Slate Jr, figlio di un famoso impresario del settore, propone loro una collaborazione per un videogioco, a cui poi seguirà la possibilità di disputare quell’incontro di spareggio che anni prima non si era combattuto. All’orizzonte spunta però BJ, il figlio di Billy, e Sally, una ex fiamma di entrambi, che fa riaccendere la rivalità tra i due contendenti.

Recensione

È tipico di un periodo privo di idee ed immaginazione, andare a ripescare storie dal passato per provare a rivisitarle, cercando di ricavarne ancora qualche cosa. Questa pellicola va oltre: non si limita infatti a riesumare i personaggi del cinema passato (quelli di Rocky e di Toro Scatenato), ma cerca di rispolverare le carriere di due attori di Hollywood ormai arenatesi, ed in perenne bisogno di ossigeno. Mette certamente molta tristezza vedere un film come Toro Scatenato accostato ad una saga, seppur di successo, come Rocky (paragone indiretto, ma evidente, vista l’accoppiata di attori designati per la parte), ma mette ancor più dispiacere vedere Robert De Niro paragonato a Stallone (che forse in questo film addirittura lo supera in intensità). Il film non è che la storia scontata di un amore troncato e di una rivalità mai sfociata in un confronto definitivo. Storia di rimorso e di rimpianto quindi, che però non va oltre il clichè, e che inevitabilmente viene declinata in chiave melensa e buonista attraverso una riappacificazione tanto improvvisata quanto banale. Unica nota che rende il film a tratti sopportabile è l’ironia (da parte dei due protagonisti, ma soprattutto di Alan Arkin, l’allenatore di Henry, e di Kevin Hart, l’organizzatore dell’evento), che distoglie temporaneamente l’attenzione dal “già visto”, facendo così respirare lo spettatore. Ironia per nulla originale, si intende, fatta di battute sull’età che avanza e punzecchiature infantili, che lasciano qualche dubbio sulla reale serietà dell’attrito tra i due protagonisti. L’uno ombroso e retto, l’altro gigione e strafottente fino all’irritazione, nel mezzo una donna (Kim Basinger, anche lei come De Niro, una stella decaduta), che ovviamente alla fine saprà fare la scelta giusta, accasandosi presso il tormentato dal cuore d’oro.
Insomma è davvero complicato prendere sul serio una pellicola che non si capacita della propria pochezza. Il parallelismo che intercorre tra la trama ed il film è evidente: i due attori, come i rispettivi personaggi, debbono affrontare un prova che risulta essere fuori dalla loro portata a causa dell’età, dimostrando così di saperci ancora fare. Fortunatamente il ruolo dell’attore offre delle possibilità di reinventarsi che la temporalmente limitata carriera sportiva non offre, ma questi due attempati signori sembrano ostinatamente intenzionati a non cogliere il beneficio che tale mestiere offre loro, continuando a ricalcare ruoli che ormai sono fuori dalla loro portata. Il film, in merito a questo, sembra mettere le mani avanti, spiegando (tramite una frase pronunciata dai due protagonisti) come questa ripresa dei guantoni non sia altro che una lotta contro il ridicolo, che però i due attori perdono malamente. Evitano infatti di scavare a fondo, cercando di dare vita a due personaggi anziani ed amareggiati, ma per nulla rassegnati alla vecchiaia, come per esempio ha saputo fare magnificamente Clint Eastwood con i suoi film più recenti. Con pellicole come Gran Torino e Million Dollar Baby, infatti, è riuscito ad esplorare con occhio raffinato e sensibile i tormenti di personaggi ormai vecchi, senza fare patetici riferimenti ai ruoli da lui precedentemente interpretati, ma senza neppure prendere troppo le distanze da questi ultimi, andando così a disegnare una pregevolissima parabola esistenziale attraverso i diversi protagonisti dei suoi film, che si accosta a quella tracciata dalla sua splendida seconda parte di carriera.
Qua invece nulla di tutto questo, purtroppo: Stallone continua a replicare il solito eroe monocorde ed inespressivo e come forse nessun altro attore De Niro continua, da 15 anni a questa parte, a scimmiottare la propria immagine, dando il colpo di grazia (forse definitivo) alla sua mai nata seconda carriera d’attore (per intenderci, quella che termina con le interpretazioni degli anni 90), nonostante appena un anno fa si fosse distinto per l’interpretazione Pat Solitano, padre del protagonista Breadly Cooper nel film Il Lato Positivo.
Un film che è avvolto da un velo di tristezza, non generato dalla storia che racconta, ma dalla visione di carriere più o meno gloriose (quelle degli attori coinvolti) consumate davanti alla tentazione di poter rivivere le interpretazioni passate, e magari anche di fronte alla possibilità di percepire un altro ingaggio spaventosamente alto, soprattutto se rapportato alle performance qui offerte.

Voto 4
G.P.